Grintoso puzzle con Tristano I
l grande cambiamento, la costante evoluzione negli ultimi anni dell’Opera di Roma si evidenzia tangibile non solo nella sostanza di una macchina teatrale che perfettamente funziona, ricca e attrattiva, ma anche da tanti dettagli: piccoli, certo, ma significativi. Uno, ad esempio, l’orario di inizio dello spettacolo che apre la nuova stagione: l’atteso Tristano di Wagner, il prossimo 27 novembre, attaccherà a sciogliere i vortici del suo immenso fiume di musica – confine tra romanticismo e déca- dence – alle 16.30. Un orario decisamente insolito, per una “premiere” italiana. Molto più allineato con i tempi usuali a Bayreuth. Ma giustificato, e dalla lunghezza della composizione, e da una precisa volontà di mettere la musica al centro.
Degli undici titoli del cartellone, otto sono nuove produzioni, in assoluto (come lo Chénier firmato dall’occhio cinematografico di Marco Bellocchio) o importate dall’estero (come il rossiniano Viaggio a Reims che due anni fa furoreggiò a Amsterdam, con la regia di Michieletto). Campeggia la trilogia verdiana, di segno visivo eterogeneo, che riunisce i precedenti già visti Rigoletto di Leo Muscato e Traviata di Sofia Coppola, col tassello finale del Trovatore affidato al “furero” Àlex Ollé, a quattro mani col Met di New York, l’ENO e Amsterdam. Da mettere in evidenza è il debutto della Lulu di Berg, mai eseguita a Roma nella versione completata da Cerha, oggi novantenne, e consegnata alla visionarietà artistica di William Kentridge. E una prelibata curiosità, per il ritorno al Costanzi dopo la stagione estiva di Caracalla, sarà il Fra Diavolo di Auber, mai sentito nella Capitale (e ben poco anche altrove) coprodotto col Massimo di Palermo per l’allestimento di Giorgio Barberio Corsetti.
Conquistata una centralità, nel panorama dei teatri italiani, e competitiva con le capitali del mondo, l’Opera di Roma ha solo un tassello scoperto, per completare il grintoso puzzle della sua programmazione: non riguarda il fronte delle voci, che sono ben scelte e mirate, non il Coro, che ha in Roberto Gabbiani un mago, non quello delle aperture al teatro contemporaneo, chimera da noi irraggiungibile e che qui invece vanta addirittura uno specifico programma (“FFF”) esemplare. La pedina mancante, in una scacchiera tanto serrata, è un direttore principale. Un nome di riferimento, a dar prestigio all’orchestra, a sottolineare l’identità del teatro. Per tenere sempre, appunto, la musica al centro.