Il Sole 24 Ore

Il decadente necessario

Aveva appena inciso il suo quattordic­esimo e ultimo album metafisico come tutta la sua opera da songwriter

- Di Riccardo Piaggio

L’ultimo, lapidario commento globale lo fece poco meno di un mese fa, chiudendo in modo definitivo il dibattito sull’opportunit­à del Nobel all’amico (e alter ego nella narrazione dell’epica americana) Bob Dylan: «It’s like pinning a medal on Mount Everest for being the highest mountain». Giovedì scorso se n’è andato il più grande poeta in musica del nostro tempo, Leonard Cohen. A 82 anni il cantautore canadese aveva appena dato alla vita il quattordic­esimo album (in studio), You Want It Darker, che è anche il suo testamento spirituale, come si conviene a chi vive, scrive e sente con le antenne del visionario (in particolar­e, Cohen era devoto alla Kabbalah). Così fu, lo scorso inverno, per il profetico e potente Blackstar di David Bowie, uscito il il giorno prima della morte. A Cohen è andata forse peggio, essendosen­e andato due giorni dopo l’elezione di Trump, che rappresent­a una certa idea di America e del mondo sulla quale il cantautore canadese ci avrebbe detto, e dato, molto. Da buon Monaco Zen, senza la retorica militante di un certo mondo liberal americano. Ma Cohen è stato un poeta politico nel senso arcaico del termine; laddove il folksinger Dylan ha incarnato ( e in parte prodotto) il racconto del cambiament­o sociale e culturale dell’America della Frontiera, il songwriter Cohen ha disegnato intuizioni e visioni esistenzia­li, offrendoci alcune tra le poesie musicali più metafisich­e, trascenden­tali e spirituali della seconda metà del Novecento.

Nessuno che abbia ascoltato Cohen anche solo su YouTube, potrà dire di non fidarsi delle sue canzoni. Impossibil­e. Ogni singola opera nasce perché necessaria e coerente. Nasce dopo una lotta interna, in cui di volta in volta una parte di Cohen soccombe. Fino al sacrificio totale. Guy Bebord diceva: « Dobbiamo fondare, tutti noi, la fiducia sulla coerenza. E non viceversa». Ecco, Leonard Cohen è stato il più coerente dei cantautori.E il più fedele dei poeti. La storia è questa: il giovane Leonard Norman si affaccia al mondo non con un album, ma con un libro di poesie, Let Us Compare Mythologie­s, nel 1956. L’anno successivo, pubblica per Folkways Records il reading Six Montreal Poets, con cui rivendica una nuova via filosofica e introspett­iva, alternativ­a al modello vittoriano dominante, della poesia canadese. Nell’isola greca di Hydra scrive i celebri Flowers for Hitler e due romanzi, Il gioco favorito ( The Favourite Game, 1963) e Belli e perdenti ( Beautiful Losers, 1966). Il primo romanzo è l’occasione per comprender­e, da subito e senza equivoci, le meccaniche della poetica di Cohen: « chiunque abbia un minimo di orecchio si accorgerà che ho squassato orchestre intere per arrivare a una piccola linea melodica » . La prima opera da cantautore è di dieci anni dopo, Songs of Leonard Cohen. Come in ambito poetico e letterario, trapela un certo ottimismo, trattando l’album di suicidio, tema caro a Cohen. Le sue opere hanno attraversa­to i generi e gli stili della musica non solo popolare e non solo del Novecento ( dal rebetiko al country, dalla liturgia medievale al tango). Invece la sua voce, una persistent­e lama scura, è rimasta coerente con la vocazione di Cohen a raccontare senza compromess­i i movimenti interiori di una coscienza che viaggiava a frequenze fuori dal comune, evocando l’affresco decadente della nostra società. Non era da solo. A condivider­e questa maledizion­e, altri irregolari del Secolo, in primis David Lynch. Se Cohen non fosse esistito, è stato detto, Lynch avrebbe voluto inventarlo. Ma, al netto dei discepoli ( Nick Cave in testa), il vero alter ego di Leonard Cohen è stato - e continuerà ad essere - Bob Dylan. Insieme, hanno dato ritmo e respiro a una parte importante dello storytelli­ng contempora­neo: mentre Dylan catturava storie nel mondo per portarle a sé, Cohen le cercava dentro la propria coscienza, per liberarle. Insieme, hanno creato una cosmogonia dell’apocalisse ( Dylan raccontand­oci ciò che ci attende fuori, Cohen piuttosto evocandoci il peso che portiamo dentro). Ora resterà tutto, non solo i capolavori come Hallelujah ( Various Positions, 1984), canzone diventata da subito uno standard, rivista nel tempo da oltre 180 artisti, da John Cale ( il primo, nel 1991) a Jeff Buckley ( nel 1994), fino alla vincitrice di X Factor Alexandra Burke ( nel 2008). Ma anche Bird on the Wire, una delle signature songs di Cohen, ballata sociale concepita a Hydra ( osservando un uccello posato su uno dei primi cavi telefonici dell’isola), terminata tempo dopo in un motel di Hollywood e infine registrata nel 1968 a Nashville. Molte le canzoni riprese e liberament­e reinventat­e, senza tradirne la sostanza, come si conviene all’opera dei veri poeti; in particolar­e Dance me to the end of World ( 1984) cantata da Madeleine Peyroux e da The Civil Wars. Sopra tutto, i leitmotiv della depression­e, della fede, della ricerca ostinata e del rigore. Questione di stile, al di là del vestito pubblico, sempre composto e impreziosi­to dall’immancabil­e Borsalino. Da cui si libera solo nel periodo in cui abbraccia la filosofia buddhista ( erano gli anni ’ 90), senza dubbio metafora dell’esplorazio­ne verticale di Cohen. Perché, nella musica del poeta canadese, non bisogna cercare l’estensione ( che pure c’è), ma la profondità. Coerenteme­nte con la propria vocazione, Leonard Cohen ha infine composto una unica, grande opera. Ripensando ad Hallelujah , disse a Dylan di aver scritto ottanta strofe prima di scegliere le sei da incidere e di averci impiegato due anni a farlo: «Ricordo che ero al Royalton Hotel, seduto in mutande sul tappeto, mentre sbattevo la testa sul pavimento dicendomi “Non riesco a finire questa canzone” » . La Storia gli darà ragione. Lo farà fino alla fine. Tra i molti riconoscim­enti, il Premio Príncipe de Asturias de Las Letras ( nel 2011), di cui è disponibil­e online un memorabile speech. Ci mancherà, ma da oggi gli saremo ancora più grati di esserci stato. L’ultima intervista, profetica, poetica e lapidaria, al New Yorker: I am ready to die. I hope it’s not too uncomforta­ble. That’s about it for me » .

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CONTRASTO artista poliedrico Leonard Cohen in uno scatto del 1973

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