Fabio Carducci
Un esercito di militanti devoti, pronti alla guerriglia politica sui social network. Ma anche gentili addetti al customer care via web, o efficienti venditori d’auto. Capaci di imparare dall’esperienza e infaticabili: non dormono, non mangiano, si possono ingaggiare sul web a costi certi. Insomma perfetti... Se non fosse per qualche risposta un po’ meccanica, che ogni tanto sfugge. (Avete presente “Siri” sul vostro iPhone?) O per il nome utente, in certi casi un’improbabile sigla. O perché sparano tweet-fotocopia a raffica, in sincronia planetaria o a scadenze cronometrate. Come solo una macchina potrebbe fare: perché macchine in effetti sono, anche se travestite da utenti in carne e ossa.
Le potenziali applicazioni dei “bot”, software che creano profili-clone su Facebook o Twitter, che a loro volta generano contenuti e messaggi, sono infinite. A volte perfettamente lecite, come rispondere ai reclami degli utenti di un prodotto in base a risposte programmate. Altre volte decisamente illecite, come falsare i risultati di una competizione musicale televisiva “votando” in massa a favore di un concorrente. O influenzando sotto mentite spoglie umane – e questo è l’aspetto più subdolo e pe- ricoloso – il voto dei “veri umani” sui social network. Quando poi la posta in gioco non è un festival ma le elezioni politiche, o i corsi di borsa, la carenza di controlli e leggi apre scenari inquietanti. Una ricerca dell’Università di Oxford sulla “Computational propaganda” mostra che la quantità di contenuti generati dai bot nella campagna elettorale Usa è stata enorme, la possibilità di risalire agli autori pressoché nulla.
«Ci sono ormai moltissimi siti che offrono questo servizio, tipo “Buy cheap followers”, ma la materia non è regolamentata», spiega Gian Luca Comandini, 26 anni, fra i più accreditati esperti di influencer marketing, nudging, social media marketing. Comandini ha fondato You & Web, che oggi è tra i leader italiani del digital marketing, ed è socio e membro del cda di Hdra, colosso italiano del- la comunicazione integrata. Tra gli impieghi leciti, spiega, ci sono i chatbot, programmi che funzionano come utenti stessi delle chat o come persone che per esempio rispondono, per conto di un’azienda, ai reclami su un prodotto. Alla base di tutto c’è l’intelligenza artificiale, in continua evoluzione. Ma dietro il robot che risponde e seleziona i reclami più frequenti, in questo caso, ci sono umani che trasferiscono all’organizzazione aziendale le informazioni necessarie a migliorare il prodotto o il servizio.
Diverso quando i bot vengono usati per falsare i risultati di una competizione artistica in tv, pilotando i consensi via Twitter o Facebook che sono sempre più decisivi. «Me lo hanno chiesto, io ovviamente ho rifiutato, ma c’è chi lo fa», avverte Comandini.
Come può un utente di social network, consumatore o elettore, difendersi dall’invasione dei bot? In alcuni casi l’impostura è palese: quando per esempio il nome dell’account è una sigla composta da numeri e lettere. O quando l’utente posta con una regolarità sospetta o troppo frequente. «Ma spesso gli utenti meno accorti – sottolinea Comandini – cadono inconsapevolmente nell’effetto gregge, pensano che se un messaggio è rilanciato da tutti sia vero e autorevole. E oggi su Twitter si calcolano tra 20 e 35 milioni di bot, inclusi quelli inattivi».
L’altra difesa sono le segnalazioni ai social network: sono vagliate da un algoritmo (ovviamente!) che rileva i casi più ricorrenti e può innescare la chiusura di un account sospetto. Ed è probabile che, dopo l’annuncio del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg sulle iniziative anti-bufale in arrivo dopo le polemiche sulla campagna elettorale Usa, anche sui bot arriverà un giro di vite.
L’ERRORE Spesso gli utenti meno accorti cadono inconsapevolmente nell’errore di pensare che un messaggio rilanciato da tutti sia vero e autorevole