Concordato dopo il leveraged buy out
La proposta ai creditori è vincolante su tempi e importo dei pagamenti
La crisi finanziaria delle società sorte da acquisizioni tramite leveraged buy-out può essere risolta anche con un concordato con continuità aziendale. È il principio dettato dal Tribunale di Milano in un decreto datato 8 novembre. Rispetto alla generalità delle crisi aziendali, la peculiarità del caso affrontato è proprio nelle radici della crisi: il debito più rilevante dell’impresa, destinato a non essere soddisfatto, deriva proprio dall’operazione “a leva” utilizzata per l’acquisizione di quella società.
Il meccanismo, ben conosciuto e ricostruito dal giudice fallimentare, è quello del reverse merger leveraged buy-out, tipico delle operazioni effettuate dai fondi di private equity: la società (cosiddetta target) della quale viene acquisito il controllo incorpora, tramite fusione inversa, la propria controllante che, normalmente, è una società di nuova costituzione (cosiddetta newco).
Con la fusione tra la newco e la target, infatti, è quest’ultima a garantire il debito tramite il suo patrimonio e ad assicurarne il rimborso attraverso l’aspettativa di cash flow prodotti dalla sua gestione e, spesso, attraverso la dismissione di assets non strategici.
Questa operazione consente quindi all’investitore di acquisire, facendo ricorso a un alto livello di indebitamento a fronte di un modesto investimento di capitale proprio, il controllo di una società operativa che sia generatrice di cassa.
Il caso esaminato dal Tribunale fallimentare di Milano riguarda proprio il caso di un’acquisizione a debito rivelatasi, successivamente, non più sostenibile a causa del peggioramento dell’andamento economico rispetto alle iniziali previsioni.
Al fine di supportare la proposta ai creditori, il piano concordatario prevedeva un ingente ap- porto di nuova finanza da parte di terzi, condizionato al buon esito della procedura. Questo apporto esterno quindi, ha consentito di valutare la continuità aziendale come maggiormente conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria. Inoltre, questo incremento dell’attivo aziendale ha consentito alla società di proporre un pagamento parziale anche dei creditori privilegiati.
Com’è noto, la disciplina del concordato con continuità prevista dall’articolo 186-bis della Legge fallimentare consente, diversamente da quella prevista per i concordati liquidatori, la possibilità di offrire ai creditori chirografari una percentuale di soddisfazione inferiore al 20 per cento. Di converso, per unanime indicazione giurisprudenziale, cui aderisce anche il Tribunale milanese, la proposta ai creditori è ritenuta vincolante e pertanto deve essere rispettata sia nella tempistica, sia nell’ammontare dei pagamenti promessi.
Molto rara è, invece, la possibilità di falcidiare i creditori privilegiati posto che questa possibilità, disciplinata dall’articolo 160, secondo comma, della Legge fallimentare, è normalmente riferita ai soli privilegi speciali che gravino su singoli e specifici beni. Il principio sancito da questa norma è, infatti, quello di consentire un pagamento parziale dei creditori privilegiati solo qualora, e nella misura in cui, la vendita del bene in ambito fallimentare sia considerata meno conveniente.
La possibilità di soddisfare parzialmente i debiti privilegiati è, inoltre, vincolata al rispetto dell’ordine di prelazione, in modo che un creditore dotato di un certo grado di privilegio potrà essere soddisfatto solo dopo che siano stati integralmente soddisfatti i creditori dotati di un grado di privilegio superiore.
Nel caso in esame, la falcidia ha potuto riguardare anche creditori assistiti da privilegio generale proprio grazie all’apporto di ter- zi. Ciò ha consentito al Tribunale di considerare superiore l’ammontare complessivo dei flussi finanziari prodotti nell'arco del piano rispetto al valore del patrimonio in caso di liquidazione, così come previsto dall’articolo 160, secondo comma, della Legge fallimentare. Quanto al riferimento temporale, il Tribunale milanese ha affermato che la regola debba essere applicata al momento della presentazione della domanda di concordato e al patrimonio del debitore esistente a quella data. È solo al momento di presentazione del ricorso per l’ammissione al concordato, infatti, che può essere effettuata una comparazione con l’alternativa fallimentare, mentre non appare un adeguato benchmark il patrimonio che residuerà al termine del piano, posto che esso dipenderà dall’andamento della gestione e sarà certamente condizionato dall’apporto di nuova finanza che, invece, in caso di fallimento, sarà assente.