Il trionfo della Butterfly antica e moderna
Un applauso lungo 14 minuti ha «cancellato» il fiasco del 1904
Il giorno del riscatto è arrivato: trionfa a Milano, 112 anni dopo il fiasco, la prima versione di “Butterfly”.
Puccini vince, con un titolo che non era mai stato scelto per un 7 dicembre scaligero. Quattordici minuti di applausi entusiastici e commossi accolgono il direttore, Riccardo Chailly, la dolcissima Cio-Cio-San di Maria José Siri, col suo piccolo bimbo biondo, e il team di regia capeggiato da Alvis Hermanis.
Al suo spettacolo, antico e moderno insieme, plasmato sul teatro di regia, specchiato in un impianto scenico di spettacolare giapponesità, va il merito principale del successo. A Chailly il coraggio di aver osato una versione, concertata con energia, in due atti e con molte parti aggiunte (ora più, ora meno necessarie).
È una “Butterfly” visivamente tradizionale quella consegnata alla prima della Scala da Alvis Hermanis, regista lettone, noto per gli spettacoli anticonvenzionali e spesso provocatori: qui nulla di ciò. La chiave giapponese che impronta l’opera di Puccini viene alla lettera rispettata, nelle pareti della “casa a soffietto”, in continuo movimento, nel profluvio di incantevoli kimono, preziosissimi e leggeri, di fattura spettacolare, e nelle vistose parrucche, arricchite di bizzarre decorazioni. Ma questa cornice tradizionale nasconde in realtà al suo interno un ostentato utilizzo del linguaggio del teatro Kabuki. Ed è proprio questo incessante movimento – farfallesco, venato di morte – che contagia tutti i protagonisti, a segnare con un tratto di modernità l’allestimento scaligero.
I gesti antichi, del teatro giapponese, studiati al millimetro e riproposti incessantemente dalla Butterfly di Maria José Siri, dai familiari, e soprattutto dal gruppo di undici minute farfalle danzatrici, che abitano al secondo livello della inventiva casa in forma di parete, disegnata dallo stesso Hermanis con la collaborazione di Leila Fteita, ci offrono una drammaturgia moderna. Pur intrisa di passato. Ne sono emblema ideale i riquadri di carta di riso che scandiscono la scena – anch’essi in continuo movimento di saliscendi – i quali da un lato evocano perfettamente il fascino di una stanza tradizionale giapponese, ma dall’altro mimano il Novecento dei quadri di Mondrian.
In equilibrio fra tradizione e novità si colloca anche il fronte musicale: i nuovi tasselli della partitura riscattati da Riccardo Chailly, perno di una “Butterfly” mai data il 7 dicembre del- la Scala, di per sé non costituiscono pagine di musica esemplare, o di speciale fascino.
Tuttavia accostati all’interno della “Butterfly” che tutti abbiamo nelle orecchie, come tessere di un puzzle perdute, creano piccole oasi curiose, imprevedibili, talora anche drammaturgicamente importanti.
Ad esempio la canzoncina dello zio ubriaco, due strofe ostentatamente semplici, che Puccini sembra aver preso direttamente da qualche popolano della Lucca natìa, qui formavano un eclatante contrasto con la successiva e ben nota parte dello zio Bonzo, con la sua invettiva feroce contro la piccola Butterfly, rinnegata e cacciata fuori dalla famiglia. Ottima l’idea di farla cantare dal terzo piano della casa a soffietto, in alto, quasi a livello dello stemma dorato milanese, sul sipario rosso Scala.
Ottima tutta la compagnia di canto, col guascone Pinkerton di Bryan Hymel, il paterno Sharpless di Carlos Alvarez, la trepida Suzuki di Annalisa Stroppa, il guizzante Goro di Carlo Bosi.
Impressionante il rituale di morte finale, con un suono macabro ricreato in orchestra, i ciliegi inondati di sangue e una gestualità millimetrica per lei, in crescendo, che conquista tutti.