L’obiettivo di inflazione resta ancora molto lontano
L’obiettivo è ancora lontano. La Banca centrale europea rivendica spesso i successi della sua azione (+1,3 punti di Pil e 1,5 di inflazione in tre anni), ma non può compiacersi troppo. Le ultime proiezioni del suo staff di economisti puntano a prezzi in aumento dell’1,7% medio annuo nel 2019, e la domanda è immediata: è questo il livello sperato («al di sotto, ma vicino al 2%»)?
«No, non proprio», ha risposto senza troppi giri di parole il presidente Mario Draghi i n conferenza stampa, dicendo subito: «Dobbiamo insistere». Anche perché , si può aggiungere, sono previsioni ottenute immaginando un forte aumento dei prezzi delle materie prime, e quindi almeno in parte del petrolio: in media il + 5% annuo per il periodo 2017-2019.
Neanche questo rialzo potrebbe quindi bastare. Non è ancora chiaro, infatti, quali potranno essere gli effetti dell’aumento delle quotazioni del greggio. Non sappiamo, ha spiegato Draghi, se si tratterà di un effetto unico (« one off »), se ci saranno effetti secondari, su altri singoli settori, o se potrà incidere anche su tutti i prezzi non energetici.
Nel primo e nel secondo caso si tratterebbe “solo” di una variazione dei prezzi relativi, cioè dell’aumento di alcuni prezzi nei confronti di tutti gli altri, fenomeno non certo irrilevante ma diverso dall’inflazione. Il terzo caso può invece portare a un incremento generalizzato dei prezzi, ma richiederebbe tra l’altro - come mostrano gli studi della stessa Bce svolti in occasione del precedente forte rialzo del petrolio - una ricorsa tra profitti e salari (le proiezioni puntano del resto a un rialzo degli stipendi del 2,1% nel 2018 e del 2,4% nel 2019) che non è certo scontata in questa fase. Se il prezzo del petrolio dovesse invece salire un po’ più rapidamente la crescita rallenterebbe «marginalmente», ma l’indice di inflazione potrebbe accelerare fino a un 2% che formalmente centra l’obiettivo, ma che potrebbe essere qualitativamente insufficiente se l’inflazione core non dovesse salire abbastanza.
Al momento, come ha precisato Draghi, non si intravvedono segnali che permettano di capire in quale direzione possa spingere l’attuale rialzo del greggio, peraltro non ancora in pieno sviluppo. L’inflazione core , di fondo, resta ferma allo 0,8% annuo, quella dei beni industriali è bloccata allo 0,3%. I prezzi alla produzione intanto continuano a calare, sia pure a un ritmo ormai davvero lento.
Le stesse aspettative di mercato, che pure oggi riflettono per pura “imitazione” le migliori prospettive per l’infla- zione degli Stati Uniti e che quindi sono salite nelle ultime settimane per una distorsione delle quotazioni probabilmente temporanea, non puntano oltre l’1,7% medio annuo per il periodo 2022-2025. Il quantitative easing non ha dunque effetti rapidi. Al punto che non manca chi ritiene che sia ancora insufficiente (e chi pensa - come Marco Valli di Unicredit - che il rallentamento del ritmo degli acquisti deciso ieri crei più confusione che altro).
La stessa crescita, per quanto «robusta» - o piuttosto resiliente - non è certo brillante. Le proiezioni Bce puntano al +1,7% nel 2017 e al +1,6% per il 2018 e il 2019, malgrado un’interessante - ma non risolutiva - accelerazione della produttività del lavoro. Non è una crescita sufficiente e il pil nominale, rilevante per i debiti pubblici e privati, aumenta a un ritmo del 3% contro il 4,5% pre-crisi. Anche se il tasso di disoccupazione potrebbe calare dal 10% di quest’anno all’8,7% del 2019.
È proprio questo il dato che sembra migliorare più di ogni altro, anche in relazione alle precedenti previsioni della Bce. È probabilmente il risultato della leggera accelerazione prevista nei consumi pubblici, mentre gli investimenti in generale sono indicati in rallentamento.
Questo scenario esclude i possibili effetti delle nuove politiche, monetaria e fiscali, degli Usa. Se l’euro/dollaro riuscisse a calare fino a quota 0,95 nel 2019, allora l’inflazione potrebbe spingersi fino al 2,3% nel 2019, con una crescita più alta di 0,2-0,3 punti percentuali per ogni anno. Se poi il protezionismo di Donald Trump potesse risparmiare Eurolandia l’area potrebbe diventare più competitiva di tutte le economie colpite dal nuovo mercantilismo Usa, con una spinta importante alla crescita.
NELLE MANI DEGLI USA Una flessione dell’euro fino a 0,95 dollari potrebbe portare l’indice dei prezzi a salire del 2,3% nel 2019