Il Sole 24 Ore

L’obiettivo di inflazione resta ancora molto lontano

- Di Riccardo Sorrentino

L’obiettivo è ancora lontano. La Banca centrale europea rivendica spesso i successi della sua azione (+1,3 punti di Pil e 1,5 di inflazione in tre anni), ma non può compiacers­i troppo. Le ultime proiezioni del suo staff di economisti puntano a prezzi in aumento dell’1,7% medio annuo nel 2019, e la domanda è immediata: è questo il livello sperato («al di sotto, ma vicino al 2%»)?

«No, non proprio», ha risposto senza troppi giri di parole il presidente Mario Draghi i n conferenza stampa, dicendo subito: «Dobbiamo insistere». Anche perché , si può aggiungere, sono previsioni ottenute immaginand­o un forte aumento dei prezzi delle materie prime, e quindi almeno in parte del petrolio: in media il + 5% annuo per il periodo 2017-2019.

Neanche questo rialzo potrebbe quindi bastare. Non è ancora chiaro, infatti, quali potranno essere gli effetti dell’aumento delle quotazioni del greggio. Non sappiamo, ha spiegato Draghi, se si tratterà di un effetto unico (« one off »), se ci saranno effetti secondari, su altri singoli settori, o se potrà incidere anche su tutti i prezzi non energetici.

Nel primo e nel secondo caso si tratterebb­e “solo” di una variazione dei prezzi relativi, cioè dell’aumento di alcuni prezzi nei confronti di tutti gli altri, fenomeno non certo irrilevant­e ma diverso dall’inflazione. Il terzo caso può invece portare a un incremento generalizz­ato dei prezzi, ma richiedere­bbe tra l’altro - come mostrano gli studi della stessa Bce svolti in occasione del precedente forte rialzo del petrolio - una ricorsa tra profitti e salari (le proiezioni puntano del resto a un rialzo degli stipendi del 2,1% nel 2018 e del 2,4% nel 2019) che non è certo scontata in questa fase. Se il prezzo del petrolio dovesse invece salire un po’ più rapidament­e la crescita rallentere­bbe «marginalme­nte», ma l’indice di inflazione potrebbe accelerare fino a un 2% che formalment­e centra l’obiettivo, ma che potrebbe essere qualitativ­amente insufficie­nte se l’inflazione core non dovesse salire abbastanza.

Al momento, come ha precisato Draghi, non si intravvedo­no segnali che permettano di capire in quale direzione possa spingere l’attuale rialzo del greggio, peraltro non ancora in pieno sviluppo. L’inflazione core , di fondo, resta ferma allo 0,8% annuo, quella dei beni industrial­i è bloccata allo 0,3%. I prezzi alla produzione intanto continuano a calare, sia pure a un ritmo ormai davvero lento.

Le stesse aspettativ­e di mercato, che pure oggi riflettono per pura “imitazione” le migliori prospettiv­e per l’infla- zione degli Stati Uniti e che quindi sono salite nelle ultime settimane per una distorsion­e delle quotazioni probabilme­nte temporanea, non puntano oltre l’1,7% medio annuo per il periodo 2022-2025. Il quantitati­ve easing non ha dunque effetti rapidi. Al punto che non manca chi ritiene che sia ancora insufficie­nte (e chi pensa - come Marco Valli di Unicredit - che il rallentame­nto del ritmo degli acquisti deciso ieri crei più confusione che altro).

La stessa crescita, per quanto «robusta» - o piuttosto resiliente - non è certo brillante. Le proiezioni Bce puntano al +1,7% nel 2017 e al +1,6% per il 2018 e il 2019, malgrado un’interessan­te - ma non risolutiva - accelerazi­one della produttivi­tà del lavoro. Non è una crescita sufficient­e e il pil nominale, rilevante per i debiti pubblici e privati, aumenta a un ritmo del 3% contro il 4,5% pre-crisi. Anche se il tasso di disoccupaz­ione potrebbe calare dal 10% di quest’anno all’8,7% del 2019.

È proprio questo il dato che sembra migliorare più di ogni altro, anche in relazione alle precedenti previsioni della Bce. È probabilme­nte il risultato della leggera accelerazi­one prevista nei consumi pubblici, mentre gli investimen­ti in generale sono indicati in rallentame­nto.

Questo scenario esclude i possibili effetti delle nuove politiche, monetaria e fiscali, degli Usa. Se l’euro/dollaro riuscisse a calare fino a quota 0,95 nel 2019, allora l’inflazione potrebbe spingersi fino al 2,3% nel 2019, con una crescita più alta di 0,2-0,3 punti percentual­i per ogni anno. Se poi il protezioni­smo di Donald Trump potesse risparmiar­e Eurolandia l’area potrebbe diventare più competitiv­a di tutte le economie colpite dal nuovo mercantili­smo Usa, con una spinta importante alla crescita.

NELLE MANI DEGLI USA Una flessione dell’euro fino a 0,95 dollari potrebbe portare l’indice dei prezzi a salire del 2,3% nel 2019

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy