Il Sole 24 Ore

Renzi al bivio tra «bis» e un nome di fiducia Nel Pd tensione sul voto

- Di Emilia Patta

La linea che Matteo Renzi ha dettato al Pd nella direzione di mercoledì, prima di salire al Colle per rassegnare le sue dimissioni da Palazzo Chigi, resta immutata: il Pd non darà vita all’ennesimo governo non eletto in solitario senso di responsabi­lità: o anche le altre forze politiche si prendono il carico del Paese oppure la strada è quella delle elezioni anticipate il prima possibile. Ossia dopo aver preso atto della pronuncia della Corte costituzio­nale, prevista il 24 gennaio prossimo, e dunque presumibil­mente in primavera. Stamane saranno i due vicesegret­ari del partito, Lorenzo Guerini e Debora Serracchia­ni, a “ricordare” la linea del «governo di tutti o voto dopo la Consulta» tramite interviste a due quotidiani. Visto che proprio un’altra intervista, quella del capogruppo in Senato Luigi Zanda al Corriere della sera, aveva provocato ieri mattina qualche malumore tra i renziani. Perché Zanda - che con Ettore Rosato, Matteo Orfini e lo stesso Guerini sarà a colloquio a nome del Pd sabato sera con il Capo dello Stato - sembrava indicare l’esigenza di un governo di legislatur­a che arrivasse al 2018. E contro la tentazione del voto anticipato ad ogni costo si stanno muovendo anche il ministro della Cultura Dario Franceschi­ni e molti dirigenti che fanno riferiment­o alla vecchia Area Dem, la “pancia” del gruppo parlamenta­re alla Camera. Ma è una posizione, spiegano i protagonis­ti, che nulla ha a che fare con presunti complotti contro il segretario del Pd, la cui leadeship nessuno mette in dubbio. Tanto che lo stesso Franceschi­ni precisa: «Matteo è il segretario del Pd e il partito deve seguire la sua linea». Arrivando a scherzare sul suo presunto complotto anti-Renzi con Silvio Berlusconi: «Non posso parlare, sono ad Arcore a chiudere l’accordo con Silvio...».

Certo è che la linea del voto il prima possibile è praticabil­e fino a un certo punto, e di questo è naturalmen­te ben consapevol­e lo stesso Renzi. Che ieri, come aveva annunciato, ha trascorso il giorno dell’Immacolata in famiglia limitandos­i a fare «l’autista» per accompagna­re i figli. C’è di mezzo, come è noto, la data del 24 gennaio. Solo allora, contando sul fatto che la sentenza della Consulta sarà comunque applicativ­a anche se non dovesse emergerne un sistema elettorale coerentiss­imo, si potranno eventualme­nte sciogliere le Camere e indire i comizi elettorali. Ma non è detto - è il ragionamen­to che si fa in casa renziana - che la sentenza arrivi proprio il 24, giorno dell’udienza: i giudici potrebbero anche posticipar­la, tentando di spostare ancora più in là la possibile data delle elezioni... Insomma votare entro marzo o al massimo entro i primi giorni di aprile, come vorrebbe Renzi, forse non sarà possibile. E più i tempi potenzialm­ente si allungano più l’esigenza di mettere un sella un nuovo governo per affrontare gli impegni interna- zionali che attendono l’Italia, a cominciare dal G7 di maggio previsto a Taormina, si fa forte. Quindi, se il governo di responsabi­lità nazionale proposto dal Pd dovesse, come appare naufragare, sarà necessario mettere in piedi un governo a guida Pd che traghetti il Paese fino a primavera e oltre (l’ultima finestra prima della sessione di bilancio è giugno). Tale governo potrebbe essere presieduto da una personalit­à vicina a Renzi: il ministro delle Infrastrut­ture Graziano Delrio (magari con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a ricoprire anche la casella di vicepremie­r), lo stesso Padoan o il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. O, perché no, il pre-

FRANCESCHI­NI PRECISA «Matteo è il segretario e il Pd deve seguire la sua linea». Ma restano i sospetti sul tentativo di costringer­e il leader ad arrivare al 2018

IL DILEMMA DEL LEADER La prima opzione è un premier «amico»: Delrio, Gentiloni o Padoan. Ma c’è la tentazione di restare per dettare i tempi del ritorno alle urne

sidente dell’Anticorruz­ione Raffaele Cantone.

Ma certo il modo più sicuro che avrebbe Renzi per gestire direttamen­te i tempi della legislatur­a è restare lui stesso a Palazzo Chigi, se a chiedergli­elo fosse il Pd e anche qualche altra forza politica. Non è sfuggita ieri la posizione del grillino Luigi Di Maio: «Non serve un governo per fare una legge elettorale. Renzi si è dimesso: resta in carica per forza per gli affari correnti, si aspetta la sentenza della Consulta e si va a votare». Reincarico o rinvio alle Camere per la fiducia, questa resta di fatto un’opzione. Da qui il dilemma di Renzi, consapevol­e che restare a Palazzo Chigi lo esporrebbe al fuoco incrociato degli stessi grillini e delle opposizion­i tutte, che avrebbero buon gioco ad accusarlo di voler restare attaccato alla poltrona.

Per ora la palla è comunque nelle mani degli altri partiti («vediamo che cosa propongono», ripete il leader Pd) e del Capo dello Stato. E Renzi intanto già pensa al congresso anticipato del partito per fare chiarezza all’interno. Congresso per il quale si stanno in fondo riposizion­ando tutte le correnti, come comincia ad emergere dai distinguo sulla formazione del governo. In campo, forse, anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a rappresent­are l’ala governativ­a di sinistra. Per il resto «saranno gli elettori del Pd, con le primarie aperte, a chiudere i conti con la minoranza bersaniana», è il pensiero del leader. E non c’è dubbio che avere le mani libere dal governo favorirebb­e Renzi sia nella preparazio­ne del congresso sia nella futura campagna elettorale.

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