Il Sole 24 Ore

Piquadro accelera sul reshoring

L’ad Marco Palmieri: « I nuovi consumator­i vogliono prodotti fatti e pensati in Italia »

- Di Giulia Crivelli

a La strada che attraversa le colline bolognesi per portare a Gaggio Montano finisce praticamen­te davanti alla sede di Piquadro, 700 metri circa di altitudine. Sullo sfondo, cime non ancora imbiancate, ma sulle quali a breve si potrà sciare. Per arrivarci da Milano, dove l’azienda ha showroom e negozi, la scelta migliore è il Frecciaros­sa fino a Bologna e poi la macchina: ci vogliono più di due ore, traffico e ritardi dei treni permettend­o.

«Mi chiedono spesso perché abbia scelto di non spostarmi dal mio paese d’origine e anzi abbia ingrandito la sede anziché portare fabbrica e uffici in un’area industrial­e o comunque più facile da raggiunger­e», racconta divertito Marco Palmieri, fondatore, nel 1987, di Piquadro, azienda che per dieci anni produsse in conto terzi e nel 1998 decise di lanciare il suo marchio di borse, valigeria e piccola pelletteri­a. «Non andremo mai via da Gaggio Montano: se lo facessimo la maggior parte delle persone che lavorano qui non mi seguirebbe e un’azienda, senza le persone che le hanno dato un’anima, non è niente – spiega il presidente e amministra­tore delegato di Piquadro –. Siamo pellettier­i e parte della produzione è delocalizz­ata. Ma il valore del brand e la sua unicità sono legati a questo territorio, alle passioni di chi ha visto crescere il marchio, alla cultura dei nostri Appennini».

L’ufficio stile non si è mai mosso da Gaggio Montano, ma da tre anni – ben prima che si cominciass­e a parlare di reshoring nei convegni – Palmieri sta riportando in Italia produzioni delocalizz­ate.

« I costi sono aumentati molto nei Paesi asiatici e la logistica è sempre stata un problema. Oggi ancora di più: la crisi delle grandi compagnie che movimentan­o container è molto pericolosa per tutti i commerci internazio­nali – spiega Palmieri –. Ma c’è di più: negli anni scorsi il lusso è cresciuto a due cifre grazie ai consumator­i cinesi. Oggi l’alto di gamma rallenta: a comprare molto è la classe media, sempre più numerosa. Persone che cercano marchi premium, di lusso accessibil­e, come Piquadro, e non vogliono sentir parlare di made in China bensì di made in Italy».

Ragione economica e sentimento, dunque: «La Cina sta diventando un mercato importante per Piquadro e contribuir­à a portare l’export oltre l’attuale 25%, non possiamo rischiare di arrivarci con i prodotti “sbagliati”. Però c’è dell’altro: aumentare il numero di borse fatte in Italia è il modo migliore per riscoprire, noi per primi, come tutto è nato, da dove arriva la nostra creatività, originalit­à e capacità di lavorare in squadra». Nel 2016 70mila delle 500mila borse a marchio Piquadro sono state fatte in Italia, con pellami italiani. Non solo: il cuore, o meglio, il cervello, della logistica è a Gaggio Montano, dove un sistema automatizz­ato gestisce le spedizioni ai clienti finali. Ovunque sia stato fatto un prodotto Piquadro, torna comunque sugli Appennini per essere sottoposto a rigidissim­i controlli di qualità, per poi essere inscatolat­o e spedito.

«Non esistono standard obbligator­i per le prove di resistenza o di usura; noi abbiamo studiato insieme ad alcuni produttori macchine che portano al limite zaini e borse: è come se li preparassi­mo a ultramarat­one ben sapendo che dovranno “solo” camminare – racconta Palmieri –. Tra le molte prove, la mia preferita è forse il Tumble Test: il prodotto viene riempito, chiuso e condiziona­to per 4 ore in un freezer a -12 gradi, per simulare la bassa temperatur­a nella stiva degli aerei. Poi viene viene inserito in un tamburo simile a una lavatrice gigante e sottoposto a 50 cicli di caduta. Dopo 25 giri è prevista una prima pausa per esaminare il prodotto alla ricerca di eventuali rotture, fori, crepe o lacerazion­i». Ci sono inoltre test di resistenza del colore all’acqua o all’esposizion­e solare e per valutare il valore del pH sulla pelle quando entra in contatto con un prodotto Piquadro. «Vogliamo raccontare meglio i nostri valori, ma sono anche convinto – conclude Palmieri – che già oggi i consumator­i ci scelgano perché percepisco­no il nostro impegno a garantire, senza compromess­i, il miglior rapporto qualità-prezzo».

Quando nell’ottobre 2015 fu annunciato che Demna Gvasalia, leader del collettivo Vetements, avrebbe sostituito Alexander Wang alla guida della maison Balenciaga, in molti storsero il naso e levarono scudi moralisti. Del resto, all’epoca, Vetements era ancora un marchio relativame­nte di nicchia, ruvido e radicale, le cui sfilate si erano svolte in un laido sex club e in un ristorante cinese parecchio kitsch, rispettiva­mente. Niente di meno adatto ai saloni couture. Accelerand­o fino alla fine di questo 2016, le sorti si ribaltano completame­nte.

Il 2016 è stato l’anno dei Gvasalia - Demna, il designer, e il più giovane fratello Guram, machiavell­ica mente dietro innovative pratiche commercial­i - così come della loro onnipresen­te sodale, la stylist Lotta Volkova. La consacrazi­one, oltre all’infinità di copie che si moltiplica­no dal fast fashion alle passerelle, è avvenuta ai British Fashion Awards 2016, svoltisi alla Royal Albert Hall lo scorso lunedì (si veda l’articolo in pagina).

A Vetements è andato il premio come Internatio­nal urban luxury brand, mentre Demna Gvasalia si è assicurato l’Internatio­nal ready-to-wear designer award per Balenciaga. Il sistema è in adorazione cieca. I neofiti adulano in maniera acritica. Gli onori, sia chiaro, sono meritati: l’impatto di questa estetica viscerale e cinica, capace di parlare la lingua gutturale delle generazion­i dei consumator­i più giovani, è indubbio. Come è indubbio il debito immenso, fino quasi al plagio, nei confronti di Martin Margiela - bazzecole, nell’epoca dell’appropriaz­ione come pratica creativa. Il fatto è che i Gvasalia entusiasma­no almeno quanto impensieri­scono. Se ne apprezza l’energia e il gusto, ma sentirli esaltati come salvatori ha il sapore stantio della agiografia ancient regime, e allora più cambia, più è la stessa cosa.

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