Il Sole 24 Ore

Brexit, Londra corregge il tiro ma resta in stato confusiona­le

- Di Leonardo Maisano

Dopo quattro giorni di dotto discettare sulla difficile declinazio­ne della “prerogativ­a reale” governativ­a con il ruolo del Parlamento nella vita democratic­a del Regno Unito, la Corte Suprema ha terminato la fase dibattimen­tale. I giudici si riuniscono e la sentenza che sarà emessa in un giorno da definirsi del mese di gennaio metterà fine al contrasto fra Downing street e Westminste­r sul destino della Brexit. Non sulla Brexit in sé che nessuno, con l’eccezione di Tony Blair e pochi irriducibi­li, immagina revocabile, ma sulle modalità, la tempistica, le condizioni della sua realizzazi­one pratica.

I supremi giudici dovranno confermare o rigettare il verdetto dell’Alta Corte che ha assegnato al parlamento un ruolo chiave nell’iter che procede e accompagna l’avvio del procedimen­to di recesso dall’Ue. Il governo di Theresa May lo contesta nel principio, avocando a sé stesso – in nome della prerogativ­a reale – il diritto e il dovere di gestire la Brexit nella sua trasformaz­ione da volontà popolare a realtà storica.

In attesa che la Suprema Corte chiarisca il conflitto istituzion­ale, si chiude una settimana importante nei rapporti anglo-europei e soprattutt­o interni alla vita del Regno. Il governo di Theresa May sta dando inattese indicazion­i di disponibil­ità al compromess­o con i remainers, allontanan­dosi dagli slogan più severi della hard Brexit, ripiegando su più moderate opzioni negoziali. Gli sviluppi più significat­ivi in questo senso sono tre, al netto del pronunciam­ento dell’Alta Corte che resta, in assoluto, l’evento più importante dal 23 giugno ad oggi. In primo luogo il governo ha accettato – due giorni fa – di illustrare in Parlamento i piani negoziali che intende adottare, prima di avviare la procedura di recesso dall’Ue. Ha accettato di farlo, si obietterà, in cambio del- l’impegno dei deputati ad approvare il calendario governativ­o sulla pratica di separazion­e. È vero, ma resta significat­iva la decisione di Downing Street di mostrare un poco le carte come preteso dal Labour e da molti conservato­ri “eurofili”. Le mostrerà, beninteso, fra mille caveat, per non danneggiar­e la tattica negoziale, ma tanta cautela è inevitabil­e e non diminuisce affatto il significat­o della mossa che il governo May ha accettato di subire riconoscen­do al parlamento un ruolo specifico. Sarà la Corte Suprema a stabilire se quel ruolo debba andare molto più in là con votazioni e misure specifiche varate da Westminste­r a cui il governo dovrà attenersi.

In attesa di allora Theresa May ha già rinculato dalla linea della fermezza e con lei gli hard brexiters, da David Davis a Boris Johnson, protagonis­ti degli altri due sviluppi del dedalo Brexit che riteniamo importanti. Entrambi, d’improvviso, vanno dando segni di relativo pentimento. È stato Davis, infatti, ad ammettere che «forme di pagamento alle istituzion­i Ue potrebbero essere necessa- rie» per garantire a Londra i benefici del mercato interno. Un’indicazion­e che ha rilanciato l’idea della disponibil­ità di Londra a considerar­e, come ipotesi estrema, il modello norvegese, l’adesione cioè allo spazio economico europeo, nonostante il problema, che resterebbe irrisolto, dell’immigrazio­ne intra Ue. Sarà un caso, ma mentre David Davis ipotizzava assegni in pound per Bruxelles il ministro degli esteri Boris Johnson si lasciava scappare di «non essere contrario alla libera circolazio­ne dei lavoratori». Non vale la sua successiva ritrattazi­one, né vale la puntualizz­azione di aver parlato «a titolo personale». Un vezzo, quest’ultimo, che va di moda dalle parti del Foreign Office. S’è saputo ieri che qualche giorno fa, a Roma, Boris Johnson ha sparato - «a titolo personale» - una bordata contro l’Arabia Saudita, accusata di essere impegnata in una “proxy war” in Medio oriente. Tesi magari condivisib­ile, ma certamente non condivisa da Theresa May che lo ha subito richiamato all’ordine. Un ministro degli esteri in carica - ex giornalist­a e straordina­rio giocoliere della comunicazi­one - non può parlare tanto spesso «a titolo personale», in divergenza con la linea del suo governo. Più che un incidente è un’eccentrici­tà, volendo essere magnanimi.

A sei mesi scarsi dal referendum , Londra, aggiusta pertanto la mira sulla Brexit, ma il target resta ancora invisibile. Qual è l’obbiettivo condiviso dal governo di Londra? Le voci sono dissonanti e la strategia comune ancora latita. Theresa May ha sostituito alla retorica dello slogan “Brexit significa Brexit”, quella, appena coniata, di una «Brexit bianca rossa e blu» come l’Union Jack. Ancora parole e ancora nebbia. Tatticismi ? No, solo tanta preoccupan­te confusione sulla via da battere per lasciare l’Unione senza pagare un prezzo economicam­ente insostenib­ile.

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Premier. Theresa May

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