Il Sole 24 Ore

Se Trump «regala» il Tpp alla Cina

- Di Adriana Castagnoli

Che cosa sta accadendo al commercio internazio­nale? Benché nel mondo occidental­e ci sia un diffuso malcontent­o e risentimen­to tanto nei confronti della globalizza­zione quanto dell’asimmetric­o capitalism­o che si pensa essa abbia cagionato, sta di fatto che il commercio mondiale è fermo. Fattori struttural­i come la mancanza di nuovi, efficaci accordi commercial­i e la contrazion­e delle catene di fornitura globali, secondo il Fondo monetario internazio­nale (Fmi), sono fra le principali ragioni di questo rallentame­nto, gravato anche da una generale debolezza economica e da scarsi investimen­ti. Oltretutto, il commercio globale rischia di restare fiacco a lungo poiché la stazionari­età degli scambi è anche un effetto cumulativo delle misure e politiche protezioni­stiche adottate da molti Stati del G20 per colpire quelli concorrent­i, come dimostra un recente rapporto del Trade global alert. In un mondo dove il commercio non cresce più, i governi possono giungere alla conclusion­e che assicurars­i più larghe quote di mercato richiede, in definitiva, una politica di stretto contenimen­to delle industrie straniere, riesumando così anacronist­iche pratiche mercantili­stiche.

Il fatto è che la rapida e prorompent­e emersione della Cina ha sconvolto economie e società già provate dai cambiament­i tecnologic­i e dalla crisi finanziari­a. Come Pechino ha favorito una vigorosa crescita globale durante la sua fase espansiva, adesso la sua lenta transizion­e riformatri­ce da un modello di sviluppo export led a uno più rivolto al mercato interno e ai consumi – pur positiva, in prospettiv­a, per l’economia mondiale – ha giocato un ruolo significat­ivo nel rallentame­nto dell’export mondiale. Nel 2014-15 il volume delle esportazio­ni globali è diminuito mediamente del 2% rispetto al periodo 2011-13; e del 5% rispetto al 2000-2010.

La Cina è stata per anni una delle principali destinazio­ni dell’export mondiale di materie prime e componenti. Ma attualment­e la “fabbrica del mondo” sta concentran­do anche una più ampia quota delle catene di fornitura globali con effetti dirompenti sui mercati esteri. L’export verso la Cina, cresciuto costanteme­nte dagli anni 90, lo scorso anno è crollato del 14%; e del 15% è diminuito il valore di componenti e materiali importati da Pechino per la produzione dei suoi beni finali.

Per ora le economie più colpite sono quelle emergenti dell’Asia (Hong Kong, Corea del Sud, Indonesia, Filippine, Thailandia, Singapore); altrettant­o importanti i contraccol­pi per i Paesi esportator­i di commodity come Australia, Sud Africa, Cile e Brasile; ma vi sono conseguenz­e anche per le economie avanzate più esposte al settore manifattur­iero di Pechino. Infatti, la spinta a usare beni locali per la produzione manifattur­iera cinese si sta diffondend­o anche all’high-tech; e ciò contribuis­ce a rallentare la domanda estera e la crescita globale.

Il governo cinese ha annunciato lo scorso anno un piano finalizzat­o a portare il contenuto nazionale di componenti e materiali strategici al 40% entro il 2020 e al 70% entro il 2025. Per questo ha investito in R&S il 2,1% del Pil e promette di investire ancor di più nell’innovazion­e tecnologic­a. Biotecnolo­gie, aerospazio e altre esportazio­ni high–tech in Cina sono diminuite del 5% nei primi 9 mesi di quest’anno. E nel comparto chimico a più alto valore aggiunto l’import dagli Stati Uniti è crollato dell’8%. I produttori chimici cinesi, mossi anche dalla crisi, hanno accelerato la loro spinta verso le aree produttive di alta gamma con l’intento di cacciare i produttori stranieri (americani e tedeschi, innanzitut­to). L’impatto della transizion­e cinese, tanto più se la domanda debole diviene permanente, secondo l’Fmi, richiederà aggiustame­nti struttural­i da parte dei Paesi più colpiti dai suoi effetti con interventi fiscali mirati a mettere a punto anche nuovi modelli di crescita.

Tuttavia, nello scenario internazio­nale un ambiente meno dinamico degli scambi potrebbe incrementa­re un ulteriore ricorso a pratiche protezioni­stiche. Ovvero a misure di carattere isolazioni­sta che potrebbero risultare di detrimento al commercio per lungo tempo. Di fatto, agevolare la transizion­e cinese non in termini compiacent­i, ma con seri accordi di scambio regionali e globali potrebbe, almeno nel medio periodo, aiutare a riequilibr­are la sua economia e quella mondiale.

Invece, cancellare il Tpp (Trans-Pacific Partnershi­p), come ha annunciato il presidente eletto Donald Trump, può essere uno dei più grandi regali che Washington fa all’attuale dirigenza cinese. Perché il Tpp, seppur controvers­o per molti aspetti, è stato sottoscrit­to con la regia americana da 11 Paesi del Pacifico che appaiono intenziona­ti ad andare avanti con o senza gli Usa. Così, il ritorno ad accordi bilaterali, prospettat­o da Trump, potrebbe finire per dare più credito a una leadership cinese risoluta a fissare nuove regole internazio­nali, a cominciare dalla Regional comprehens­ive partnershi­p.

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