Titoli di Stato, si compra a breve e si vende a lunga
Acquisti sulle durate più corte, venduti i titoli a scadenza lunga - Spread a 162
pVendere i titoli di Stato a lunga scadenza, ma soltanto per acquistare quelli che stanno sulla parte a breve della curva dei tassi. La reazione dei mercati obbligazionari prima all’annuncio delle decisioni adottate ieri dalla Banca centrale europea (Bce), poi alla successiva conferenza stampa del presidente Mario Draghi non è stata certo lineare. Così, per un rendimento del BTp decennale che è tornato sopra il 2% aggiungendo ben 10 punti base al valore del giorno precedente (con lo spread sul Bund in rialzo a quota 162), si sono anche visti i tassi dei titoli italiani scendere fino alla scadenza dei 3 anni, e altrettanto è successo nel resto d’Europa.
Il paradosso è tuttavia soltanto apparente, anzi il «testacoda» è giustificabile con il fatto che a Francoforte si siano prese più decisioni, tali quindi da avere ripercussioni differenti in base alla diversa scadenza dei bond. Eliminare il limite minimo del tasso sui depositi (attualmente a -0,40%) sui titoli acquistabili nell’ambito del piano Bce ha per esempio esercitato un impatto immediato sui rendimenti dei titoli tedeschi che oscillavano attorno a tale valore: quello a 5 anni è sceso proprio al di sotto del precedente livello chiave, mentre i tassi a due e tre anni sono precipitati rispettivamente allo 0,74% e allo 0,69 per cento proprio perché a questo punto non esiste più nessun vincolo al rastrellamento da parte dell’Eurotower.
Nella stessa direzione va anche l’allargamento dello spettro delle obbligazioni riacquistabili fino a includere i titoli con scadenza residua a un anno: due decisioni che se messe insieme garantiscono maggior margine di manovra e flessibilità all’istituto centrale. Con le le regole attuali, secondo le stime di Frederik Ducrozet di Pictet Wealth Management, il problema della scarsità dei titoli tedeschi da acquistare non dovrebbe infatti presentarsi prima del giugno 2018 e quindi successivamente alla scadenza del piano, che ieri è stata prolungata a tutto il 2017.
Spiegare invece perché i titoli di Stato con scadenza maggiore siano stati venduti, provocando quindi un’impennata dei rispettivi rendimenti, è invece meno immediato. Sulla carta la Bce ha infatti aumentato di ben 9 mesi la durata minima del piano, andando quindi oltre le attese medie degli analisti che ne prevedevano 6, ma ha anche ridotto da 80 a 60 miliardi di euro la portata mensile dei riacquisti a partire da aprile. Per quanto Draghi abbia ripetutamente precisato che non si tratta del tapering tanto temuto dal mercato (che anzi, non sarebbe stato neppure discusso ieri in consiglio), gli investitori leggono la mossa come un chiaro segnale del fatto che il «qe» non sarà eterno e si muovono di conseguenza sulle lunghe scadenze.
La tendenza all’aumento dei tassi di quella parte della curva europea non è in effetti una novità di ieri, ma risale ormai a qualche mese. Dietro il fenomeno si cela una generale riconsiderazione delle attese sull’inflazione futura (più giustificate negli Stati Uniti e in Gran Bretagna che nell’Eurozona per la verità) e anche un movimento dei rendimenti obbligazionari a livello globale (a partire dai Treasury Usa) al quale l’Europa non può sottrarsi.
C’è anche la sensazione che le stesse banche centrali stiano cercando con le proprie mosse di rendere più ripide le curve dei tassi, anche per alleviare i problemi di redditività delle banche commerciali: in modo dichiarato come è avvenuto ormai quasi 3 mesi fa per il Giappone; forse indiretto ma sicuramente efficace per la Bce stessa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, visto che ieri la differenza fra i rendimenti a 2 e 10 anni della Germania ha raggiunto i 112 punti base toccando così i massimi da quasi due anni e mezzo. Per il settore del credito è una bella boccata d’ossigeno, e lo si è visto in Borsa.