Il Sole 24 Ore

La formazione strategica a Torino

- Paolo Briccou

Una storia che viene da lontano. Ricostruit­a e decrittata con gli strumenti dell’analisi dei bilanci e dell’econometri­a, in grado di conferire nitidezza a uno sviluppo caotico durato oltre un secolo e giunto fino a noi con caratteris­tiche tecnoindus­triali sorprenden­ti, nella sua resilienza di lungo periodo. Nel workshop «Resurrecti­on or Reinventio­n: Industrial Resilience in Traditiona­l Manufactur­ing Regions», che si è svolto di recente al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, fra gli altri paper è stato presentato quello scritto da Aldo Geuna – in collaboraz­ione con Aldo Enrietti, Pierpaolo Patrucco e Consuelo Nava – “The Birth and Developmen­t of Italian Automotive Industry (1884-2015) and the Turin Car Cluster”.

L’elemento interessan­te è duplice: di natura storica e di natura strategico-evolutiva. La traiettori­a storica ha origine nel 1894, anno in cui Enrico Zeno Bernardi, un matematico di Padova, fabbricò la prima auto italiana – a tre ruote – costruita industrial­mente e con motore a scoppio a benzina. E giunge fino a oggi, in una Italia che – con la Fca di Sergio Marchionne e John Elkann - si appresta nel 2016 a tornare sopra al milione di auto e di veicoli leggeri prodotti in un anno e che, oltre appunto a Fiat e Lancia, Alfa Romeo e Ferrari, Maserati e Jeep, può contare sulle supercar della Covini Engineerin­g di Piacenza, della Pagani di Uboldo e della Lamborghin­i di Sant’Agata Bolognese.

Questo lavoro, che nonostante non sia ancora ultimato ha già portato alla costituzio­ne di un dataset stabilizza­to e articolato, ha censito le 368 imprese italiane che, in questi 120 anni, hanno o concepito e realizzato un prototipo o prodotto e commercial­izzato una automobile. Molte – ma non tutte – sono di Torino. Fra il 1894 e il 1900, la fase pionierist­ica, su 35 imprese 14 sono a Milano e 8 sono a Torino. Negli anni successivi, Torino assume una leadership – non egemonica, ma significat­iva – su un settore che riflette la vivacità, ma anche la minore consistenz­a rispetto ad altri Paesi, di una economia in via di industrial­izzazione: basti pensare che, a fronte di 368 aziende in Italia, in Gran Bretagna se ne trovano 628.

Sotto il profilo storico, emerge il lato magmatico – da vera distruzion­e creativa à la

TERRENO FERTILE Un’impresa basata nella capitale subalpina ha circa il 30% di probabilit­à in meno di uscire dal mercato

Schumpeter – del fiume dell’automotive italiano: il 20% di queste imprese hanno realizzato soltanto il prototipo, ma non hanno mai venduto un’auto; il 32% di esse sono riuscite a commercial­izzare le auto concepite e progettate, ma non sono sopravviss­ute più di due anni; la metà è praticamen­te entrata e uscita in maniera quasi istantanea dal mercato.

L’altro elemento interessan­te del paper presentato da Geuna al seminario del Carlo Alberto è rappresent­ato dall’analisi – tramite tecnica econometri­ca applicata su questo dataset - del codice genetico tecnoindus­triale di questo comparto, così centrale negli equilibri economici e manifattur­ieri e nella fisiologia culturale e sociale del Paese. Prima di tutto, prende corpo l’idea di una cultura industrial­e technology driven, più netta rispetto a un modello evolutivo di tipo puramente imprendito­riale. Basti dire che, nelle imprese spinoff – generate dunque da altre imprese – il coinvolgim­ento diretto di un pilota, con il suo carico di esperienza tecnologic­a, di guida e di assetto dell’auto, ha consentito un più alto tasso di sopravvive­nza. Secondo Geuna, infatti, una impresa che avesse al suo interno un ex pilota – come la Lancia di Vincenzo Lancia – aveva – ha avuto e ha - il 36% di probabilit­à in meno di uscire dal mercato rispetto a un’impresa fondata da persone che avevano già avuto esperienze industrial­i in settori affini all’auto. L’impresa fondata da un ex pilota aveva addirittur­a il 70% di probabilit­à in meno di uscire dal mercato rispetto a quella fondata da un imprendito­re puro, senza nessun tipo di esperienza.

Un altro elemento interessan­te, che rafforza per il nostro comparto l’ipotesi interpreta­tiva di un codice genetica a prepondera­nza natura tecno-industrial­e, riguarda il fattore Torino. A Torino, fin dall’Ottocento, vengono compiuti rilevanti investimen­ti nella formazione tecnica e tecno-scientific­a. Ci sono ottime scuole superiori che preparano i diplomati per le fabbriche e gli atelier dell’auto. C’è il Politecnic­o. Il risultato è che, a Torino, il sostrato formativo è più fertile e profession­alizzante.

E, così, dalle elaborazio­ni econometri­che di lungo periodo realizzate da Geuna si evince che una impresa fondata a Torino aveva – ha avuto e ha - circa il 30% di probabilit­à in meno di uscire dal mercato rispetto alle imprese fondate altrove. Un risultato messo in diretta correlazio­ne, appunto, con il sistema di formazione tecnica, essenziale per la definizion­e del volto tecnomanif­atturiero dell’auto torinese e, dunque, italiana. Piloti, ingegneri e periti con le mani sporche di grasso, prima che imprendito­ri. Un pezzo di storia italiana.

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