Un dolore di nome Cor vo
Ve dovo con due figli, uno scrittore capisce che per liberarsi dalla sofferenza è preferibile la fiaba al racconto realistico
Che cos’è il dolore? Un sentimento, una condizione, un’esperienza? Tutto questo insieme, e ancora qualcos’altro che sfugge a ogni presa? E come raccontarlo? Su domande come queste, e su possibili personali risposte, è costruito il romanzo di un giovane autore inglese, Max Porter, Il dolore è una cosa con le piume. Si tratta di un libro di esordio che ha ottenuto in patria un grande successo e che è stato recentemente incluso tra i 100 migliori libri del 2016 dal «New York Times», e che ora arriva da noi nella ammirevole traduzione di Silvia Piraccini. Dico ammirevole perché il romanzo inglese ha un’ andatura movimentata e frammentata , e una lingua che contagia la prosa della vita quotidiana con la poesia, il simbolo con la banalità domestica, la fiaba con una osservazione disincantata di gesti e fatti colti nella confusione che si verifica quando un ordine creduto saldo va in frantumi.
Porter nasce come autore da una intensa frequentazione del mondo dei libri: prima lavorava come commesso in una libreria, poi è diventato editor di Granta e della Portobello Books, ma merito speciale del libro è di non essersi ispirato al mainstream della letteratura contemporanea, per esempio ai numerosi testi autobiografici che espongono l’esperienza del dolore secondo i criteri del più letterale naturalismo, con gli effetti patetici di una presunta vita in diretta. Porter invece ci spiega, mentre ce lo sta raccontando, che il dolore non ha parole, e che per avvicinarlo bisogna scardinare le frasi fatte che lo imprigionano. Il protagonista in lutto della storia allontana i consolatori, che chiama «i condoglianti in orbita», ciascuno con la sua prevedibile offerta verbale: «i distrutti, gli ostentatori d’apatia, i finora niente, quelli che piantano radici, i nuovi migliori amici suoi, miei, dei bambini».
Ecco allora che entriamo nella vita del giovane marito, uno studioso di letteratura, e dei suoi due bambini dopo la morte della moglie e madre attraverso un diverso consolatore, una creatura
fantastica che è una improbabile baby-sitter e contemporaneamente un brutale maestro di vita, un fiabesco signor Corvo. È lui «la cosa con le ali» che con i suoi discorsi gracchianti si assume il compito di mettere in scena il disordine, lo sconvolgimento materiale e interiore di quella famiglia in cui la perdita ha alterato ogni possibile normalità. Non parla però né gracchia solo lui: in ognuna delle tre sezioni del libro ( «Un pizzico di notte», «Difesa del nido», «Licenza di partire») alla sua strana voce si alternano , in degli assolo, quella del padre e quella – all’unisono – dei bambini. Il Corvo ha le idee chiare: «C’era una volta un demone che si cibava di dolore: dalle porte e dalle finestre della triste abitazione di un vedovo si diffuse l’aroma invitante di un trauma fresco e lutto intenso». Se il demone cerca in tutti i modi di entrare con le sue viscide astuzie, bisogna armarsi per impedirglielo. In questo caso il principio di realtà non serve, neppure la celebe lezione freudiana sull’elaborazione del lutto. Ciò che serve , suggerisce nell’incrocio delle sue tre voci l’autore inglese, è il lessico della fiaba e l’imprevedibile sintassi della poesia.
Il corvo è un animale che ha un illustre pedigree letterario, ma entra nelle pagine di Il dolore è una cosa con le piume introdotto dai versi di Emily Dickinson: «Che l’amore sia tutto quel che c’è/ è tutto quel che sappiamo dell’amore», dove la parola amore, nell’epigrafe del libro, è cancellata da un tratto di riga e sostituita con la parola corvo, che a sua volta si incarica di incarnare e rappresentare il dolore. Ma il corvo vero e proprio che gracchia nella storia viene per implicita ammissione dello scrittore dai versi di Ted Hugues , dal suo popoloso mondo selvatico di presenze vitali, violente e visceralmente aggressive. Anche Porter ogni tanto inchioda la sua storia a una libera metrica poetica: «Come te, vedovo inglese, volto fogliato,/ costa selvaggia di progressi, lamenti, affanni, malumori,/stipendi, esami, menzogne, ormoni nuovi, fasi estatiche,/ogni paura morta come il campo di fiori./A tempo debito/ ritornerà».
Ora il giovane vedovo sta proprio ultimando un libretto che si intitolerà Il Corvo di Ted Hughes sul divano: un’analisi selvaggia. Da giovane ha incontrato quel celebre poeta in una conferenza in cui gli ha posto una interminabile domanda quando il tempo per il dibattito stava per scadere. Nessuna risposta, salvo poi, sulla porta d’uscita, un rapido sguardo reciproco e una cordiale manata sulla spalla. Hughes e il suo corvo, sembrerebbe, hanno insegnato a quell’imbranato giovanotto che se si vuole parlare di esperienze umane con un po’ di verità è necessario lasciare ai reality televisivi ogni facile e truce realismo e percorrere strade traverse, che sono poi – o dovrebbero essere – le vere strade della letteratura. Max Porter, Il dolore è una cosa con le piume, traduzione di Silvia Piraccini, Guanda, Milano, pagg. 124, € 14