Una platea orfana di strategie anti-crisi
Nell’abbondanza di numeri che ci è toccata la scorsa settimana, da quelli del referendum a quelli della manovra per finire con il quantitative easing della Bce, ce n’è uno che non ha avuto grande risalto e che invece merita di essere considerato: sono i 400mila «lavoratori indipendenti» perduti con la crisi tra il 2008 e il settembre 2016, così come certificati dall’ultimo censimento Istat sul mercato del lavoro e segnalati sul Sole 24 Ore il 7 dicembre. All’ultima rilevazione, quindi, l’Istituto stima una presenza di 5 milioni e 386mila «autonomi», che rappresentano sempre un valore di tutto rispetto, anche a livello europeo, ma che segnano - avverte sempre l’Istat - un calo del 7,1%, soprattutto tra gli uomini e nella fascia di età compresa tra i 25 e i 44 anni.
Sarebbe molto semplice liquidare questo calo con la constatazione banale che, di sicuro, tra questi 400mila alcuni erano “di troppo” e che l’attività autonoma comprende fatalmente un rischio di insuccesso che si deve tenere in conto. Obiezioni fondate, certamente. Ma, lo ripetiamo, banali. Perché quella diminuzione va messa in relazione con diversi fattori dominanti, nello stesso periodo 20082016: la perdita di posti di lavoro dipendente, le difficoltà nel far ripartire le assunzioni stabili, gli sforzi italiani e della stessa Unione europea per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità.
Tutti elementi che vorrebbero o dovrebbero portarci verso un incremento del «darsi il lavoro da sé», e non verso una sua diminuzione.
Come sempre, per capire un numero servono altri numeri: quelli che compaiono in queste pagine cercano di comporre un quadro il più possibile aggiornato e puntuale del lavoro indipendente, a cominciare dalla sua diffusione presso i giovani. Un’impresa improba, perché la categoria va dalle professioni storiche con Albo, a mestieri altrettanto storici ma privi di Albo, dagli artigiani agli informatici, per arrivare a specialità recentissime come il webmaster o il social media editor. Tutti accomunati, però, da condizioni fiscali, giuslavoristiche e reddituali che si possono serena- mente definire deludenti.
Sono deludenti gli sconti offerti dal fisco, se si paragonano le detrazioni riconosciute ai primi 10mila euro dei dipendenti a quelle accordate a chi lavora con partita Iva. Sono deludenti le prospettive previdenziali, affidate al metodo contributivo e quindi fatalmente meno generose con redditi troppo bassi. E sono deludenti, ça va sans dire, i redditi, come ogni anno segnalano ad esempio i divari tra giovani e meno giovani nelle contribuzioni versate alle Casse professionali. Restano poi ancora deludenti i meccanismi di incentivazione e sostegno, e non decollano le società tra professionisti. Tutte delusioni che si vedono, eccome: basti pensare alla protesta dei commercialisti che stanno preparando uno sciopero contro la nuova serie di adempimenti fiscali.
Una possibile constatazione finale,tuttavia, non può limitarsi a questa mappa delle difficoltà. È probabilmente più proficuo domandarsi per quali motivi, pur in un arco di tempo non breve, ovvero i nove anni da che perdura questa crisi, i tentativi di intervento non abbiano mai (ancora?) trovato un qualche slancio coordinato. E abbiano invece lasciato spazio a plurime revisioni dei regimi fiscali forfettari, a più programmi avviati e poco perseguiti, ad altalene delle aliquote contributive. Molte speranze sono state riposte nello Statuto del lavoro autonomo, il cui destino, come quello di molti altri provvedimenti, è ora appeso all’evolversi della crisi politica. Potrebbe essere - se le Camere lo confermeranno - un punto di svolta, o l’ennesimo maquillage di poca efficacia.