Contro il potere senza testa
Provate a immaginare l’intera cultura universale, dagli antichi testi sapienziali fino ad Arbasino, mobilitata contro la «attuale infamia del regno economico e mediatico», contro l’«analfabetismo del sentire»! Come se il bibliotecario Borges incontrasse Benjamin, e l’idea di redenzione contenuta nel passato. Giuseppe Montesano, uno dei nostri migliori romanzieri, ha concepito un progetto di smisurata ambizione: una enciclopedia del sapere ecumenica e tendenziosa, centinaia di voci in forma di microsaggi (alcuni condensati in poche righe altri allungati fino a una decina di pagine), redatte con spirito militante (contro il «potere senza testa e con molte teste che ci domina») e una «competenza» specifica a volte sorprendente. Lo stile è insieme «divagatorio e concentrico», come qui si dice dell’essayism di due antologie degli umoristi. Il repertorio
di questo «romanzo collettivo», o «autobiografia di tutti», spazia dalla letteratura alla musica, dalla pittura al cinema e financo all’impegno politico-civile e allo yoga: dopo Montale trovate l’anarchico Berneri, dopo Ripellino la Callas, dopo Jean Vigo Nicola Chiaromonte, dopo Hemingway Capitini, dopo Gombrowicz Bateson: Lettori selvaggi. Dai misteriosi artisti della preistoria a Saffo a Beethoven a Borges, la vera vita è altrove.
Il massiccio tomo polverizza dal punto di vista quantitativo il record precedente tenuto da Albinati vincitore dello Strega (arriva quasi a duemila pagine!), ma a differenza di quello si presenta come un gigantesco ipertesto, un invito alla lettura in cui il lettore può entrare e uscire liberamente, e in modo “selvaggio”. Così ho fatto, andando a leggere subito le voci relative ad autori che mi stanno più a cuore o sui quali mi interessava in particolare il giudizio di Montesano. A volte si ha l’impressione di un libro lievemente - ma forse anche felicemente - anacronistico, come se questa enciclopedia provenisse da un naufragio, dal nau- fragio dell’idea di Rivoluzione degli anni ’70. E dal momento che la Rivoluzione si è rivelata un effetto illusionistico, allora questa biblioteca si rivolge a un lettore di oggi - disilluso però indocile, non conciliato - , per alimentare con una vertiginosa pluralità di umori culturali la sua rivolta («che non assecondi la semplificazione ma la ostacoli») e immaginazione utopica, il «sogno di una cosa» che fa «crescere passioni e amori». Le voci sugli autori hanno quasi tutte una abbagliante forza di rivelazione, proprio in quanto violentemente idiosincratiche, dettate da una passione personalissima, un po’ come le voci dell’Encyclopedie, e perciò - credo - assai più durevoli di tante voci neutre e pedanti di pretenziose enciclopedie. Straordinarie - ma vado un po’ alla rinfusa (per la mia lettura rapsodica del volume) - le voci su Stendhal (ciò che porta alla morte interiore Julien, nel Rosso e il nero, è la resa al Politico, alla carriera e al denaro, ciò che lo salva è «l’amore dato senza chiedere nulla in cambio»), Proust(a scrivere la Recherche è stato un gruppo non un individuo…) - Montesano ha una formazione di francesista - , Adorno (le «compagne tedesche» che vollero umiliarlo scoprendosi il seno «ignoravano che da presunte ribelli sarebbero diventate manager servili del potere»), e poi su Cervantes (dove Don Chisciotte è reinventato in un caffè di Napoli) e poi ancora su Manzoni (l’Adelchi è «giudizio senza appello sull’antropologia italiana»), Pirandello (i cui personaggi sono già i non-personaggi di DeLillo e Foster Wallace), Montale (una poesia così oggettiva che in essa ci sono insieme l’Io e l’Altro) o sulla commedia all’italiana (che dimostra che «solo l’esagerazione è vera») o su Orwell («vide la servitù volontaria come la vera prigionia dell’Occidente e vide la miseria di coloro che blateravano di fraternità e uguaglianza»)., sui grandi sperimentatori di lingue alla Gadda ossessionati dall’etico…(mi sono limitato a prelievi minimi, saltando qui e là).
L’idea che anima Lettori selvaggi, e che risuona in molte pagine, è una suggestione teologico-politica: l’essere umano è stato creato imperfetto e “mancante”, alla vita manca qualcosa, come sapeva Quevedo (un significato che sempre sfugge), e così la “vera vita” è altrove. Per questo motivo l’essere umano è chiamato a rigenerare la creazione, a strapparla «al suo destino di indifferenza e stupidità», e a cercare l’altrove nell’arte. Concordo con la prima parte del discorso ma ho qualche dubbio sulla seconda, che in qualche caso dà alla riflessione di Montesano una curvatura profetico-millenaristica (ad es. la voce sui Vangeli). Né, benché angosciato dalla pervasiva religione dei consumi e dal «controllo globale dell’interiorità», sono interamente d’accordo sulla demonizzazione del capitalismo: almeno alle origini era anche un tentativo di risposta al problema, forse insolubile, della natura umana. Come infatti riconosce lo stesso Montesano l’altrove è qui. E ciò significa che non va cercato nell’arte e nella letteratura, nell’immaginazione «tappabuchi»(Simone Weil). Ai libri possiamo solo chiedere di aiutarci a cercare tracce dell’altrove, ma rigorosamente dentro questa unica vita, dentro questo mondo sublunare e limitato che abitiamo. Né l’uomo dovrebbe correggere una creazione “sbilenca” (siamo proprio noi a giudicarla tale?). L’imperfezione e manchevolezza della vita è più “perfetta” di qualsiasi città ideale disegnata da volenterosi utopisti. Per Adorno non si dà vera vita nella falsa, ma Fortini lo corresse saggiamente: non si dà vera vita se non nella falsa.