L’incertezza diventa il paradigma dell’economia
«The Queen question», la “domanda della regina”: la regale questione si riferisce a un semplice interrogativo che la regina Elisabetta pose nel novembre 2008. Presenziava, col consorte, all’inaugurazione della nuova sede della London School of Economics, e durante un dibattito accademico sulla turbolenza dei mercati (due mesi prima c’era stata la famosa bancarotta della Lehman Brothers, che diede la stura alla Grande recessione), Sua Maestà chiese: «Perché nessuno se n’era accorto?». La domanda era ed è legittima: la Grande recessione prese di sorpresa accademici e politici, banchieri centrali e capi d’azienda. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e, col senno di poi, non mancano molte dotte spiegazioni.
Oggi la regina avrebbe titolo per fare un’altra domanda: «Perché nessuno ha visto venire l’ondata populista?». Brexit è stata una sorpresa, l’elezione di Trump è stata una sorpresa, il margine di vittoria del recente referendum in Italia è stato una sorpresa, così come sorprende il continuo avanzare dei partiti e dei movimenti anti-sistema, o anti-establishment o anti-élite che dir si voglia in molte nazioni europee.
Le due grandi questioni – le code velenose della Grande recessione, e il nuovo populismo (o “nuovo nazionalismo” come lo chiamano alcuni) – segnano questo 2017 che si apre. Una costante di questi sguardi di fine anno è quella di chiamare l’anno a venire “un anno chiave”. Ma quest’anno forse merita il titolo più degli altri, dato che confluiscono un malessere sociale e un malessere economico, ognuno con tratti distintivi, ma anche con tentacoli che si avvinghiano da un malessere all’altro.
In effetti le due “domande della regina” – quella vera e quella che potrebbe essere – sono legate. Le ragioni del populismo crescente vengono da lontano, ma hanno ricevuto una spinta dalla Grande recessione.
Questo è stato il più grosso inciampo dell’economia mondiale dagli anni Trenta, e ha frantumato quelle attese di crescita costante che erano state il fiore all’occhiello del dopoguerra. Di quei decenni che avevano incorniciato il periodo di più forte e continua espansione dell’economia nella storia dell’umanità. Quella crisi ha spezzato le “aspettative crescenti”, quelle pacate certezze che guardano a un futuro migliore, quelle convinzioni che ogni generazione avrebbe conosciuto un livello di benessere più alto rispetto alla generazione precedente.
Non è qui in questione il livello di benessere quanto la sua evoluzione. Si spiega solo così il paradosso menzionato, in un recente discorso alle Nazioni Unite, dal presidente Barack Obama: dal punto di vista economico il mondo, in una prospettiva storica, non è mai stato così bene, ma il malessere è diffuso un po’ dappertutto. Come si spiega questa discrasia?
A gran parte della gente la nozione secondo cui “non siamo mai stati così bene” sembrerebbe una presa in giro. Ma vediamo prima gli argomenti a favore di quella ottimistica nozione. Primo, la povertà nel mondo. La Banca mondiale definisce la condizione di “povertà estrema” con una spesa di 1,25 dollari americani al giorno (in parità di potere d’acquisto). Ebbene, nel 1990 una fetta non piccola della popolazione mondiale – 1,926 miliardi di persone – vivevano in condizioni di povertà estrema. Nello spazio di 25 anni – un quarto di secolo – questo numero si è più che dimezzato, a 836 milioni. Secondo, la salute. For- se l’indicatore più comprensivo della condizione di salute di una popolazione è la longevità: la “speranza di vita”, come si chiama tecnicamente, visto che tutte le cure e le medicine sono sostanzialmente volte a vivere più a lungo. Ebbene, anche qui le notizie sono buone. Questo indicatore è andato crescendo un po’ in tutte le aree del mondo: dall’Europa alle Americhe, dall’Asia all’Africa all’Oceania... Dopo esser rimasta all’incirca piatta dall’inizio della Rivoluzione industriale al 1870 al livello – sembra incredibile – di 30 anni per la media mondiale, la speranza di vita è andata da allora crescendo indefessamente, fino a raggiungere – i dati vanno fino al 2012 – gli 80 anni in Europa, i 70 per la media del mondo e i 58 in Africa. Un neonato che veda oggi la luce vivrà più a lungo e con meno malattie che in qualsiasi altro periodo della storia dell’umanità.
Terzo: guardiamo alle guerre, gli eventi che hanno portato maggiori sofferenze e morti nella storia dell’uomo. Malgrado quello che le pagine dei giornali ci sbattono in faccia con le cronache dei conflitti in Siria, Iraq, Yemen e altrove, gli anni dal 2000 in poi sono stati “felicemente avari” di morti cruente dovute a conflitti civili o esterni.
Ma ci sono spine in queste rose. Per esempio, la speranza di vita, secondo gli ultimi dati (2015), è andata diminuendo per la prima volta, in America e anche in Italia. Non ci sono morti per guerre nella misura dei decenni passati, ma ci sono ondate migratorie che stanno cambiano il volto etnico di molte nazioni “ricche”. E, soprattutto, sono andate aumentando le diseguaglianze. Una recente inchiesta internazionale del World economic forum ci dice che in quasi tutti i Paesi più del 50% della popolazione pensa che il mondo stia andando peggio. Le diseguaglianze non sono aumentate se guardiamo al mondo come a un solo Paese, perché in quel caso il fatto che i due Paesi più popolosi del mondo – Cina e India – siano cresciuti molto più della media fa sì che i divari di reddito siano diminuiti. Ma anche all’interno di Cina e India la distanza fra ricchi e poveri si è allargata, così come nei Paesi industriali. È questa “diseguaglianza interna” che conta, perché la gente si confronta con chi vive nel proprio Paese.
Poi, c’è il terrorismo, che è macroecono- micamente trascurabile ma ha un forte impatto psicologico. I morti nelle guerre saranno diminuiti, ma in fondo la gente accetta che in guerra si possa morire. Mentre non accetta il fatto che andando a un concerto e sedendo a prendere un caffè al bar o prendendo un aereo per piacere o per dovere, si possa saltare in aria.
Dietro le diseguaglianze ci sono due forze possenti: da una parte, il progresso tecnico è di tipo “labour saving”: fa risparmiare lavoro, e non solo – ciò che avviene da decenni – nelle fabbriche, ma anche negli uffici. E l’economia della conoscenza premia i “primi della classe” molto più che in passato. Dall’altra, l’onda lunga della globalizzazione sta facendo sentire i suoi effetti: gettando nell’arena dell’economia di mercato miliardi di lavoratori a basso costo era inevitabile che molti lavori si spostassero verso i Paesi low cost e che, per i posti che rimanevano, salari e stipendi subissero una pressione al ribasso. E anche se i posti di lavoro si ritrovano (i tassi di disoccupazione sono bassi, al 4,6% in Usa e al 3% in Giappone) i nuovi posti perduti nella manifattura si ricreano nel terziario, ma magari a redditi più bassi; in ogni caso, il rimescolio dei posti innestato da tecnologia e globalizzazione ingenera incertezza e tensioni. La sicurezza del posto di lavoro non è più quella di prima.
Il 2017 si apre quindi all’insegna dell’incertezza. I grandi previsori segnalano tassi di crescita non molto diversi da quelli (modesti) di quest’anno. Ma mai come ora si addensano tante incertezze sugli esiti potenziali. Nel Paese leader la presidenza Trump ha promesso molto, ma il mondo è più complicato di quello sottostante a quelle facili promesse. E non è escluso che al malessere sociale e a quello economico si aggiunga anche quelle geopolitico, con un’America che ha voglia di mostrare i muscoli e una Cina che vuole far pesare il suo ruolo di prima economia del mondo.