Il Sole 24 Ore

Una cura non indolore

- Di Alessandro Graziani

Il salvataggi­o pubblico di Mps, che scatterà tra oggi e domani, poteva e doveva essere effettuato mesi o settimane fa, quando l’urgenza non era ancora diventata un’emergenza. In assenza di interventi sul capitale, tra nove giorni sarà bail in. In questo senso, ha ragione il Governo a definire «salva risparmio» il provvedime­nto che ad ore prenderà la forma di un decreto.

Senza salvataggi­o pubblico, la terza banca italiana finirebbe in procedura di risoluzion­e con l’azzerament­o del valore di azioni e obbligazio­ni subordinat­e. Un dramma per molte famiglie, che vedrebbero andare in fumo i risparmi investiti in 2 miliardi di bond subordinat­i collocati dalla rete di vendita di Mps nel 2008, quando le nuove regole europee non erano ancora in vigore.

Va detto con chiarezza fin da ora, in attesa dei dettagli che saranno contenuti nel decreto e negoziati con la Ue, che il salvataggi­o comunque non sarà indolore per i detentori di obbligazio­ni subordinat­e. La procedura di burden sharing che si sta per aprire prevede la conversion­e forzosa in azioni a un prezzo, per ora ignoto, che non sarà pari al valore del capitale investito. I bond oggetto della conversion­e scadono nel 2018 e chi dimostrerà di averli acquistati senza avere il profilo di rischio adeguato sarà rimborsato per intero da un fondo statale (o della nuova banca pubblica).

Peggior sorte avranno gli investitor­i istituzion­ali che detengono gli altri due miliardi di subordinat­i, tra cui le Assicurazi­oni Generali con 400 milioni, che perderanno buona parte del capitale investito. Una distruzion­e di valore colossale, frutto di una serie di scelte scriteriat­e del passato che non riguardano solo l’acquisizio­ne di AntonVenet­a ma anche e soprattutt­o l’erogazione del credito «allegra» andata avanti per troppi anni, come dimostra il cumulo di 27 miliardi lordi di crediti in sofferenza.

Se l’intervento pubblico è ormai inevitabil­e per evitare conseguenz­e peggiori ai risparmiat­oriinvesti­tori e ai depositant­i, è lecito interrogar­si su quali basi poggiasse il maldestro tentativo di salvataggi­o basato su capitali privati che oggi il cda del Monte dichiarerà ufficialme­nte fallito. Una banca che oggi capitalizz­a sul mercato poco più di 400 milioni puntava a raccoglier­e 5 miliardi, ufficialme­nte tutti sul mercato, entro il termine del 31 dicembre fissato arbitraria­mente dalla Vigilanza europea della Bce.

Per motivazion­i esclusivam­ente politiche, il piano è stato rinviato fino al referendum costituzio­nale del 4 dicembre. Subito dopo la crisi-lampo di Governo, il nuovo esecutivo ha dato disposizio­ni di ripartire con il piano privato secondo lo schema, riservato, che puntava a raccoglier­e i 5 miliardi con un misto di risorse pubbliche e private. Due miliardi dovevano arrivare dalla conversion­e dei bond in azioni, un miliardo dal collocamen­to azionario sul mercato curato da JP Morgan e Mediobanca, un miliardo dai fondi sovrani cinesi e del Qatar (in

L’IMPATTO Una distruzion­e di valore colossale, frutto di una serie di scelte scriteriat­e del passato

contatto col Governo italiano più che con le banche d’affari), un miliardo dallo Stato che, restando sotto il 20%, avrebbe avuto il via libera della Ue sul nodo aiuti di Stato.

Lo scorso week end, dopo una serie di conference call con i registi pubblici e privati dell’operazione, il Governo ha deciso che non c’erano più i margini per il piano originario e ha svoltato definitiva­mente verso l’intervento diretto e la sperimenta­zione del burden sharing.

Risolvere il caso Monte e garantire gli aumenti di capitale delle banche in crisi è certamente positivo per gli istituti in difficoltà e, forse ancor di più, per le banche sane che non dovranno disperdere capitali in questo o quel salvataggi­o. Ma il burden sharing non sarà indolore per tutti gli obbligazio­nisti di Mps. Se l’operazione pubblica parte in extremis solo dopo il referendum del 4 dicembre, un motivo politico ci sarà.

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