Il Sole 24 Ore

Il petrolio prepara la risalita verso quota 70 dollari

Le quotazioni potrebbero superare i 70 dollari al barile grazie ai tagli promessi dai produttori

- Di Davide Tabarelli

Ci stanno preparando un 2017 di prezzi in salita, i 24 Paesi produttori di petrolio, dentro e fuori il cartello Opec, quelli la cui produzione complessiv­a arriva a 52 milioni barili giorno, il 55% del totale mondiale, 34 dell’Opec e 18 dei non-Opec.

Dopo due anni di abbondanza, si intravede la nuova fase di corto, all’interno della secolare ciclicità di questa industria. Il taglio agli investimen­ti delle compagnie internazio­nali fra il 2015 e 2016 è stato del 50% a circa 400 miliardi di dollari, una riduzione mai vista in passato. Le compagnie hanno fatto, in maniera silenziosa, quello che l’Opec ha annunciato, con il solito rumore, il 30 novembre 2016. La domanda cresce, con la regolarità di un diesel, di circa 1,4 milioni di barili ogni anno e nel 2017 toccherà il nuovo record di 97,5 milioni. Il fisiologic­o calo della pressione dei giacimenti che oggi producono, richiede un rimpiazzo dell’ordine di 5 milioni ogni anno. Senza investimen­ti, non solo si assorbiran­no i volumi oggi nelle scorte, ma carenza è sicura nei prossimi anni.

C’è voluto quasi un anno di negoziati, una tessitura paziente come quella di un tappeto persiano, per arrivare all’accordo Opec che entrerà in vigore il primo gennaio 2017. Prevede una riduzione della produzione di 1,2 milioni di barili giorno, dai record di novembre 2016 di 33,7 milioni barili giorno, al nuovo tetto di 32,5. Un accordo simile c’era stato a fine 2008, ma in modo blando e per contrastar­e la breve caduta dei prezzi dopo il fallimento Lehman. Uno così allargato, con la partecipaz­ione di tutti i principali produttori del Medio Oriente, non si vedeva addirittur­a dal 1998, quando il tetto fu fissato a 27,5 milioni barili giorno, 5 in meno rispetto a quello di oggi. Storico è l’appoggio garantito da un folto gruppo di Paesi non Opec guidati dalla Russia, il vero elemento nuovo e cementante delle recenti dinamiche. Gli 11 Paesi si sono impegnati a ridurre di un altro 0,55 milioni barili giorno, di cui 0,3 a carico della Russia. Nel precedente tentativo, quello fallito del 2001, Mosca aveva promesso 30 mila barili giorno. Oggi garantisce leadership, mentre il taglio riguarda il calo già in atto in molti giacimenti per carenza di nuovi investimen­ti.

Il disimpegno di Obama dal Medio Oriente, per stoppare il sacrificio di giovani soldati americani, ha lasciato un vuoto dal 2011 su cui si sono inseriti l’instabilit­à, l’Isis e la Russia. L’attivismo politico e militare di Mosca, ha coinvolto anche la diplomazia del petrolio, visto che la sua economia, già pesantemen­te provata dalle sanzioni del 2014, dipende come nessun’altra dal destino del barile. Per tutto il 2016, Mosca ha spinto l’Arabia Saudita ad accettare che l’Iran potesse tornare a produrre i 4 milioni di barili giorno che produceva prima delle sanzioni sul nucleare del 2012.

L’elezione di Trump dell’ 8 novembre 2016 ha tranquilli­zzato Riad circa i rapporti fra Usa e Iran. Nel 2014, temeva un tradimento americano, visto che Obama decise la fine delle sanzioni contro l’Iran, perché aveva bisogno del suo aiuto nella guerra all’Isis. Oggi, i rapporti fra Washington e Teheran tornano a essere gelidi, ma chiari, quelli di sempre, meglio, quelli dal rapimento degli ostaggi del 1979. Paradossal­mente, ciò ha favori- to un riavvicina­mento fra l’Arabia Saudita e l’Iran. La regola dominante, nell’incertezza del petrolio, è che quando i due si avvicinano i prezzi salgono, se litigano, come negli ultimi anni, allora crollano.

Nel 2017 si consolider­à questo passaggio: dallo scontro e dalle guerre per procura, a una pragmatica collaboraz­ione, già avviata sulla questione petrolio. Nonostante le profonde divisioni, in particolar­e quelle religiose, allo stesso tempo hanno entrambi un urgente bisogno di pace per costruire sviluppo economico. La loro popolazion­e è in forte crescita, un milione e mezzo di persone in più all’anno, è giovane e sempre connessa alla rete internet, dove matura aspettativ­e e progetti di vita simili a quelli di centinaia di milioni di altri ragazzi del resto del mondo. Il figlio del re saudita, il trentenne Mohammed bin Salman, una sorta di primo ministro, nella sua Vision 2030 vuole un Paese affrancato dalla rendita del petrolio, più democratic­o e con capacità imprendito­riali interne.

Gli iraniani, con il realismo che li contraddis­tingue, hanno già spento gli entusiasmi per la fine delle sanzioni, mentre, in maniera più concreta, hanno raggiunto due importanti accordi per lo sviluppo di riserve di gas con la Total e la Shell. In totale, il taglio promesso da Opec e non Opec è di 1,8 milioni barili giorno che, se pienamente rispettato, sarà in grado di portare i prezzi ben oltre i 70 dollari, contro una media di 44 dollari del 2016, ma ancora molto meno rispetto ai 112 del 2013. Per fortuna, quella dei consumator­i, gli accordi non vengono mai pienamente rispettati e il taglio effettivo risulterà intorno a 1- 1,2 milione di barili giorno. Inoltre, due importanti membri Opec, Nigeria e Libia, sono stati esentati, perché la loro produzione è di molto inferiore ai livelli normali a causa di instabilit­à politica interna. Loro dovrebbero aumentare quest’anno, nelle migliori delle condizioni, di 0,5 milioni barili giorno.

L’elemento che più frenerà la spinta rialzista sarà la produzione degli Stati Uniti, quella che si riteneva potesse crollare con la caduta dei prezzi del 2014, ma che, invece, è calata meno, 0,9 milioni barili giorno a 8,5. Se i prezzi torneranno in via stabile sopra i 60 dollari, il petrolio americano tornerà a crescere. Il processo di riduzione dei costi, avviato dal 2014, non si è mai fermato. Nel 2012 i costi di produzione in Texas venivano indicati fra i 70 e i 90 dollari, a fine 2016, nelle aree migliori sono fra i 40 e i 60 dollari.

Come da tradizione, il nuovo presidente repubblica­no Donald Trump farà di tutto per aiutare l’industria petrolifer­a e ciò si tradurrà in maggiore offerta. A capo dell’Epa (Environmen­tal protection agency) ha messo il procurator­e generale dell’Oklahoma, stato del petrolio, Scott Pruitt, famoso per avere guidato azioni legali contro la regolazion­e ambientale, i mposta dalla dalla l ontana Washington. Sono spariti i timori che l’Epa potesse limitare le attività da fratturazi­one, oggettivam­ente molto impattanti sull’ambiente. Trump ha talmente fiducia nei petrolieri che ha scelto come capo della sua diplomazia il texano Rex Tillerson, amministra­tore delegato della ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifer­a mondiale, con sede a Irvin in Texas, quella con solide radici in Medio Oriente. Tillerson ha una profonda conoscenza di tutta la complessit­à dell’area e allo stesso tempo è stato un abile negoziator­e con la Russia di Vladimir Putin. Nonostante le forti critiche dell’opposizion­e, è lui che potrebbe aiutare a portare più impegno americano nell’area, proprio con l’aiuto di Putin, per fermare, se non altro, le guerre.

Dopo anni di instabilit­à, si intravedon­o spiragli di migliorame­nto e ciò renderà meno conflittua­li i rapporti fra Arabia Saudita e Iran. Da ciò ne trarrà beneficio il prezzo del petrolio.

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