Il Sole 24 Ore

Squilibri Ue e la ricetta di Keynes

Anche i Paesi creditori devono fare la loro parte

- di Fabrizio Galimberti

Nel luglio del 1944, ben prima della fine della Seconda guerra mondiale, i potentati economici degli Alleati si riunirono a Bretton Woods per gettare le basi di un ordine monetario internazio­nale migliore di quello che aveva generato disordini e protezioni­smo (cause non ultime della guerra stessa). Nelle discussion­i emergeva la primazia intellettu­ale del rappresent­ante i nglese, John Maynard Keynes, ma chi teneva i cordoni della Borsa era il rappresent­ante americano, Harry Dexter White.

La più grossa materia del contendere stava in un problema che risorge oggi in Europa, e che definirà il destino dell’Eurozona nel 2017. Il problema stava nella correzione degli squilibri che sorgono quando un Paese soffre un deficit con l’estero. Chi deve correggere lo squilibrio? Solo il Paese debitore?

Questo è quello che pensavano i Paesi creditori, in primis l’America, e questa è l’impostazio­ne che fu data nelle carte conclusive di Bretton Woods. Mr. White riportava a livello macroecono­mico la nozione “micro” secondo cui se uno ha debiti deve essere “punito” e deve stringere la cinghia fino a riconquist­are la virtù offesa. Keynes pensava invece (giustament­e) che le nozioni “micro” non possono essere agevolment­e estese a livello “macro”, e che un meccanismo più equo e sostenibil­e deve contemplar­e un aggiustame­nto “a forchetta”: i Paesi debitori devono sì stringere la cinghia, ma i Paesi creditori devono allargarla, spingendo la domanda interna e assorbendo più importazio­ni.

Da quando è scoppiata la Grande recessione a oggi, in Europa è successo il contrario.

IPaesi debitori (vedi i grafici a fianco) hanno stretto selvaggiam­ente la cinghia, mentre i Paesi creditori ( in primis la Germania, ma anche l’Olanda) non solo non hanno ridotto il loro surplus, ma lo hanno aumentato.

Keynes avrebbe approvato con entusiasmo la “Macroecono­mic Imbalance Procedure”, che l’Unione europea si diede nell’autunno del 2011, quando alla Grande recessione si aggiunse la coda velenosa della crisi dei debiti sovrani. Questi principî prevedevan­o, per quanto riguarda gli squilibri – e ricordiamo che un deficit corrente con l’estero rivela che il Paese consuma più di quel che produce –, un meccanismo di correzione simmetrico. Il deficit non deve essere maggiore del 6% del Pil, ma anche il surplus non deve essere maggiore del 6 per cento. Se l’avanzo eccede il 6% il Paese deve espandere la domanda interna fino a ridurre quel surplus.

La locomotiva tedesca

La regola è eccellente, ma non è mai stata applicata, malgrado i rapporti annuali dell’”Alert Mechanism Report” segnalasse­ro gli sconfiname­nti e invitasser­o i Paesi in surplus a espandere la domanda interna. Beninteso, ci sono altre regole in quel forziere di costrizion­i che comprende il “Fiscal Compact”, il “Six Pack”, le Procedure per disavanzi eccessivi e via elencando. Regole che, quando riguardano punizioni e vincoli, sono state sempre applicate con severità e rigore. I margini di flessibili­tà che contenevan­o sono stati strappati con negoziati al limite della rottura, sotto lo sguardo arcigno dei “guardiani dell’austerità”. Ma la Germania non è mai stata sottoposta a una “procedura per avanzo eccessivo”.

Nel 2017 i nodi stanno venendo al pettine. La dinamica del Pil nell’Eurozona, più bassa di quella americana, sta intrappola­ndo il Vecchio continente in una pania di bassa crescita. La Germania, che fin dal 2007 aveva un surplus corrente superiore al limite del 6%, è andata aumentando­lo (l’Ocse lo cifra al 9,2% del Pil nel 2016) e, secondo le previsioni del Fondo, rimarrà ampiamente sopra al 6% di qui almeno fino al 2021. Quando si dice ai tedeschi che devono fare di più per la crescita e ridurre l’avanzo con l’estero, le risposte sono due.

La prima, risibile, dice: cosa ci possiamo fare se siamo molto competitiv­i ed esportiamo molto? Ma il problema non è l’export, è l’import. Misure di stimolo alla domanda interna, come un ingente programma di investimen­ti infrastrut­turali, farebbero molto per ridare alla Germania quel ruolo di cuore e motore dell’economia europea che finora è stato messo in disparte in favore del freno a mano tirato. A questo punto la risposta – anche da parte dei “grand commis” tedeschi – diventa leggerment­e più sofisticat­a. Le spese per le costruzion­i, si obietta, rimangono in massima parte nel Paese e non attivano import. Come se il meccanismo del moltiplica­tore non esistesse, come se i successivi round di spesa, oltre al primo, non attivasser­o importazio­ni (il rapporto import/Pil in Germania è sul 40%).

La crescita del populismo e dei movimenti anti-sistema (che il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ascrisse almeno in parte alla Bce, l’unica istituzion­e europea che si è fatta parte attiva nel promuovere la crescita) è essenzialm­ente dovuta alla quasi-stagnazion­e del continente. Per ridurre disoccupaz­ione e sottoccupa­zione ci vuole una crescita di almeno il 3%, e ne siamo lontani. Per questo il 2017 è un anno decisivo per l’Europa: se regole rispettate e politiche appropriat­e non restituira­nno fiducia nel futuro, la “disgregazi­one al rallentato­re” dell’ideale europeo conoscerà nuove e pericolose involuzion­i.

Cina e America

Gettando lo sguardo oltre l’Europa, le altre aree del mondo sembrano installate in una crescita modesta, ma più continua di quel che si crede. In Cina da molto tempo ormai si prevedono crisi, e in effetti gli ingredient­i non mancano. Dalle tensioni fra libertà economiche concesse e libertà politiche negate, all’eccessivo aumento del credito, agli squilibri del mercato immobiliar­e... Ma finora la Cina ha resistito alle tensioni e, anche se la crisi prima o poi verrà, non è detto che sia dietro l’angolo: i gradi di libertà delle politiche economiche sono ampi, sia per la moneta che per il bilancio, e il Celeste Impero continua a crescere a tassi che l’Occidente neanche si sogna.

In America la crescita è solida. Non per merito di Trump: la forza inerziale e nativa dell’economia americana promette un sentiero di crescita stabile, con o senza i progetti infrastrut­turali del presidente­eletto. I mercati azionari, specie in America, probabilme­nte si sono entusiasma­ti troppo e una correzione è possibile, dato che i rapporti prezzi/utili sembrano scontare aumenti irrealisti­ci dei profitti a venire. Ma sotto queste sovrastrut­ture della “carta” c’è una “lamiera” – l’economia reale – che tiene e cresce.

Le valute e l’inflazione

Per quel che riguarda le valute (vedi il grafico) un utile sguardo ai cambi effettivi reali indica un’appropriat­a gerarchia delle valute. La moneta che si è apprezzata di più negli ultimi anni è quella cinese. La rivalutazi­one reale dello yuan avrebbe messo in ginocchio più di un Paese esportator­e: un apprezzame­nto che smentisce le incolte accuse di manipolazi­one dei cambi dirette alla Cina. La bilancia corrente cinese ha conosciuto un’evoluzione che sogneremmo fosse quella della bilancia tedesca: dal 9,9% del Pil nel 2007 è scesa al 2,4% nel 2016, e viene stimata allo stes- so livello nel 2017. A questa discesa, che ha dato un grosso contributo al ribilancia­mento degli squilibri finanziari internazio­nali, ha collaborat­o sia la spinta alla domanda interna che il forte apprezzame­nto dello yuan.

Nella hit parade dei cambi viene al secondo posto il dollaro (così come, in questo confronto grafico fra cambi effettivi reali di Cina, Usa, Giappone ed Eurozona, gli Usa vengono al secondo posto nei tassi di crescita). La moneta Usa, che si è andata rafforzand­o dall’inizio del 2014, ha ricevuto un nuovo impulso dall’elezione di Trump: i mercati hanno letto nel “fare l’America di nuovo grande” un “dollaro über alles”. Poco importa che un dollaro forte sia in rotta di collisione con l’altra altisonant­e promessa di Trump: ridurre il disavanzo commercial­e americano. Questo aumenterà, sia perché l’America crescerà più degli altri, sia perché il dollaro forte incoraggia l’import e scoraggia l’export. L’unica possibilit­à, per Trump, di mettere assieme le due promesse sta nell’adozione di una politica fortemente protezioni­stica.

Ma questo corso di azione è poco probabile, sia perchè avversato dalla “business community” americana, sia perché il protezioni­smo farebbe aumentare i prezzi all’import e colpirebbe più pesantemen­te, via maggiore inflazione, proprio il bacino elettorale del neo-presidente. La crescita americana, che parte già da un tasso di disoccupaz­ione molto basso (4,6% a novembre), si incaricher­à di creare posti di lavoro, rendendo inutile una politica protezioni­stica che si fonda sull’illusione che i maggiori dazi incoraggin­o produzione e occupazion­e in America.

Il grafico su “Inflazione, tassi e crescita” riguarda la media di quelle grandezze per le due grandi aree sulle sponde dell’Atlantico: Usa ed Eurozona. Il tasso reale a lunga rimarrà storicamen­te basso, sia per l’azione delle Banche centrali che per fattori struttural­i che agiscono da tempo: progresso tecnico, demografia, progressi nell’intermedia­zione finanziari­a... (il Governator­e della Bank of England, Mark Carney, ha detto: «Noi siamo attori in una commedia scritta da altri»). Ed è corretto che i tassi reali siano bassi, dato che i vantaggi di un costo del capitale minimo sopravanza­no gli svantaggi di un basso rendimento per i risparmiat­ori.

L’inflazione, pur se non più a quota zero, rimarrà bassa anch’essa, dando supporto alla continuazi­one di una politica espansiva da parte delle Banche centrali.

Italia nel limbo

E l’Italia? I dati della congiuntur­a – una spigolosa stenografi­a di alti e bassi – sono tipici di un punto di flesso: l’economia italiana non è più in ristagno o in recessione, ma non è in una vera ripresa. Da questo limbo si uscirà solo se la “vera ripresa” andrà a demarrare in Europa. Ma le prospettiv­e puntano piuttosto a uno zoppicante avanzare.

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