Squilibri Ue e la ricetta di Keynes
Anche i Paesi creditori devono fare la loro parte
Nel luglio del 1944, ben prima della fine della Seconda guerra mondiale, i potentati economici degli Alleati si riunirono a Bretton Woods per gettare le basi di un ordine monetario internazionale migliore di quello che aveva generato disordini e protezionismo (cause non ultime della guerra stessa). Nelle discussioni emergeva la primazia intellettuale del rappresentante i nglese, John Maynard Keynes, ma chi teneva i cordoni della Borsa era il rappresentante americano, Harry Dexter White.
La più grossa materia del contendere stava in un problema che risorge oggi in Europa, e che definirà il destino dell’Eurozona nel 2017. Il problema stava nella correzione degli squilibri che sorgono quando un Paese soffre un deficit con l’estero. Chi deve correggere lo squilibrio? Solo il Paese debitore?
Questo è quello che pensavano i Paesi creditori, in primis l’America, e questa è l’impostazione che fu data nelle carte conclusive di Bretton Woods. Mr. White riportava a livello macroeconomico la nozione “micro” secondo cui se uno ha debiti deve essere “punito” e deve stringere la cinghia fino a riconquistare la virtù offesa. Keynes pensava invece (giustamente) che le nozioni “micro” non possono essere agevolmente estese a livello “macro”, e che un meccanismo più equo e sostenibile deve contemplare un aggiustamento “a forchetta”: i Paesi debitori devono sì stringere la cinghia, ma i Paesi creditori devono allargarla, spingendo la domanda interna e assorbendo più importazioni.
Da quando è scoppiata la Grande recessione a oggi, in Europa è successo il contrario.
IPaesi debitori (vedi i grafici a fianco) hanno stretto selvaggiamente la cinghia, mentre i Paesi creditori ( in primis la Germania, ma anche l’Olanda) non solo non hanno ridotto il loro surplus, ma lo hanno aumentato.
Keynes avrebbe approvato con entusiasmo la “Macroeconomic Imbalance Procedure”, che l’Unione europea si diede nell’autunno del 2011, quando alla Grande recessione si aggiunse la coda velenosa della crisi dei debiti sovrani. Questi principî prevedevano, per quanto riguarda gli squilibri – e ricordiamo che un deficit corrente con l’estero rivela che il Paese consuma più di quel che produce –, un meccanismo di correzione simmetrico. Il deficit non deve essere maggiore del 6% del Pil, ma anche il surplus non deve essere maggiore del 6 per cento. Se l’avanzo eccede il 6% il Paese deve espandere la domanda interna fino a ridurre quel surplus.
La locomotiva tedesca
La regola è eccellente, ma non è mai stata applicata, malgrado i rapporti annuali dell’”Alert Mechanism Report” segnalassero gli sconfinamenti e invitassero i Paesi in surplus a espandere la domanda interna. Beninteso, ci sono altre regole in quel forziere di costrizioni che comprende il “Fiscal Compact”, il “Six Pack”, le Procedure per disavanzi eccessivi e via elencando. Regole che, quando riguardano punizioni e vincoli, sono state sempre applicate con severità e rigore. I margini di flessibilità che contenevano sono stati strappati con negoziati al limite della rottura, sotto lo sguardo arcigno dei “guardiani dell’austerità”. Ma la Germania non è mai stata sottoposta a una “procedura per avanzo eccessivo”.
Nel 2017 i nodi stanno venendo al pettine. La dinamica del Pil nell’Eurozona, più bassa di quella americana, sta intrappolando il Vecchio continente in una pania di bassa crescita. La Germania, che fin dal 2007 aveva un surplus corrente superiore al limite del 6%, è andata aumentandolo (l’Ocse lo cifra al 9,2% del Pil nel 2016) e, secondo le previsioni del Fondo, rimarrà ampiamente sopra al 6% di qui almeno fino al 2021. Quando si dice ai tedeschi che devono fare di più per la crescita e ridurre l’avanzo con l’estero, le risposte sono due.
La prima, risibile, dice: cosa ci possiamo fare se siamo molto competitivi ed esportiamo molto? Ma il problema non è l’export, è l’import. Misure di stimolo alla domanda interna, come un ingente programma di investimenti infrastrutturali, farebbero molto per ridare alla Germania quel ruolo di cuore e motore dell’economia europea che finora è stato messo in disparte in favore del freno a mano tirato. A questo punto la risposta – anche da parte dei “grand commis” tedeschi – diventa leggermente più sofisticata. Le spese per le costruzioni, si obietta, rimangono in massima parte nel Paese e non attivano import. Come se il meccanismo del moltiplicatore non esistesse, come se i successivi round di spesa, oltre al primo, non attivassero importazioni (il rapporto import/Pil in Germania è sul 40%).
La crescita del populismo e dei movimenti anti-sistema (che il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ascrisse almeno in parte alla Bce, l’unica istituzione europea che si è fatta parte attiva nel promuovere la crescita) è essenzialmente dovuta alla quasi-stagnazione del continente. Per ridurre disoccupazione e sottoccupazione ci vuole una crescita di almeno il 3%, e ne siamo lontani. Per questo il 2017 è un anno decisivo per l’Europa: se regole rispettate e politiche appropriate non restituiranno fiducia nel futuro, la “disgregazione al rallentatore” dell’ideale europeo conoscerà nuove e pericolose involuzioni.
Cina e America
Gettando lo sguardo oltre l’Europa, le altre aree del mondo sembrano installate in una crescita modesta, ma più continua di quel che si crede. In Cina da molto tempo ormai si prevedono crisi, e in effetti gli ingredienti non mancano. Dalle tensioni fra libertà economiche concesse e libertà politiche negate, all’eccessivo aumento del credito, agli squilibri del mercato immobiliare... Ma finora la Cina ha resistito alle tensioni e, anche se la crisi prima o poi verrà, non è detto che sia dietro l’angolo: i gradi di libertà delle politiche economiche sono ampi, sia per la moneta che per il bilancio, e il Celeste Impero continua a crescere a tassi che l’Occidente neanche si sogna.
In America la crescita è solida. Non per merito di Trump: la forza inerziale e nativa dell’economia americana promette un sentiero di crescita stabile, con o senza i progetti infrastrutturali del presidenteeletto. I mercati azionari, specie in America, probabilmente si sono entusiasmati troppo e una correzione è possibile, dato che i rapporti prezzi/utili sembrano scontare aumenti irrealistici dei profitti a venire. Ma sotto queste sovrastrutture della “carta” c’è una “lamiera” – l’economia reale – che tiene e cresce.
Le valute e l’inflazione
Per quel che riguarda le valute (vedi il grafico) un utile sguardo ai cambi effettivi reali indica un’appropriata gerarchia delle valute. La moneta che si è apprezzata di più negli ultimi anni è quella cinese. La rivalutazione reale dello yuan avrebbe messo in ginocchio più di un Paese esportatore: un apprezzamento che smentisce le incolte accuse di manipolazione dei cambi dirette alla Cina. La bilancia corrente cinese ha conosciuto un’evoluzione che sogneremmo fosse quella della bilancia tedesca: dal 9,9% del Pil nel 2007 è scesa al 2,4% nel 2016, e viene stimata allo stes- so livello nel 2017. A questa discesa, che ha dato un grosso contributo al ribilanciamento degli squilibri finanziari internazionali, ha collaborato sia la spinta alla domanda interna che il forte apprezzamento dello yuan.
Nella hit parade dei cambi viene al secondo posto il dollaro (così come, in questo confronto grafico fra cambi effettivi reali di Cina, Usa, Giappone ed Eurozona, gli Usa vengono al secondo posto nei tassi di crescita). La moneta Usa, che si è andata rafforzando dall’inizio del 2014, ha ricevuto un nuovo impulso dall’elezione di Trump: i mercati hanno letto nel “fare l’America di nuovo grande” un “dollaro über alles”. Poco importa che un dollaro forte sia in rotta di collisione con l’altra altisonante promessa di Trump: ridurre il disavanzo commerciale americano. Questo aumenterà, sia perché l’America crescerà più degli altri, sia perché il dollaro forte incoraggia l’import e scoraggia l’export. L’unica possibilità, per Trump, di mettere assieme le due promesse sta nell’adozione di una politica fortemente protezionistica.
Ma questo corso di azione è poco probabile, sia perchè avversato dalla “business community” americana, sia perché il protezionismo farebbe aumentare i prezzi all’import e colpirebbe più pesantemente, via maggiore inflazione, proprio il bacino elettorale del neo-presidente. La crescita americana, che parte già da un tasso di disoccupazione molto basso (4,6% a novembre), si incaricherà di creare posti di lavoro, rendendo inutile una politica protezionistica che si fonda sull’illusione che i maggiori dazi incoraggino produzione e occupazione in America.
Il grafico su “Inflazione, tassi e crescita” riguarda la media di quelle grandezze per le due grandi aree sulle sponde dell’Atlantico: Usa ed Eurozona. Il tasso reale a lunga rimarrà storicamente basso, sia per l’azione delle Banche centrali che per fattori strutturali che agiscono da tempo: progresso tecnico, demografia, progressi nell’intermediazione finanziaria... (il Governatore della Bank of England, Mark Carney, ha detto: «Noi siamo attori in una commedia scritta da altri»). Ed è corretto che i tassi reali siano bassi, dato che i vantaggi di un costo del capitale minimo sopravanzano gli svantaggi di un basso rendimento per i risparmiatori.
L’inflazione, pur se non più a quota zero, rimarrà bassa anch’essa, dando supporto alla continuazione di una politica espansiva da parte delle Banche centrali.
Italia nel limbo
E l’Italia? I dati della congiuntura – una spigolosa stenografia di alti e bassi – sono tipici di un punto di flesso: l’economia italiana non è più in ristagno o in recessione, ma non è in una vera ripresa. Da questo limbo si uscirà solo se la “vera ripresa” andrà a demarrare in Europa. Ma le prospettive puntano piuttosto a uno zoppicante avanzare.