Il Sole 24 Ore

Rallenta il passo dell’Italia all’estero

Sulla bilancia commercial­e hanno pesato soprattutt­o il calo delle vendite verso gli Usa, ma anche Regno Unito, Turchia e Russia Crescita dell’export sotto l’1% - Con il Piano straordina­rio per il made in Italy sul piatto 200 milioni

- Micaela Cappellini

Il 2016 che anno è stato per l’internazio­nalizzazio­ne dell’Italia? Per le esportazio­ni è un bilancio magro. I dati si fermano al +0,2% dei primi dieci mesi dell’anno, ma secondo le stime dell’ufficio studi di Sace il 2016 dovrebbe chiudersi con una performanc­e compresa tra +0,5 e +0,8 per cento. Una crescita lenta, insomma, come nel 2013, ben lontana da quel +3,9% messo a segno dal nostro export nel 2015.

pIl 2016 si è appena chiuso. Che anno è stato per l’internazio­nalizzazio­ne dell’Italia? Per le esportazio­ni, tanto per cominciare, quello del 2016 è un bilancio magro. I dati certi si fermano al +0,2% dei primi dieci mesi dell’anno, ma secondo le stime dell’ufficio studi di Sace abbiamo chiuso il 2016 con una performanc­e compresa tra +0,5 e +0,8 per cento. Una crescita lenta, insomma, come nel 2013. Ben lontana da quel +3,9% messo a segno dal nostro export nel 2015. Allora riuscimmo ad andare più veloci del commercio mondiale, il cui tasso di incremento complessiv­o, secondo la Wto, fu del 2,8%; nel 2016, invece, abbiamo fatto peggio della media globale degli scambi, che si stima sia cresciuta dell’1,7 per cento.

I nodi dell’export

Che cosa non ha funzionato? «Il primo “colpevole” sono gli Stati Uniti - risponde Alessandro Terzulli, chief economist di Sace -: furono loro i veri protagonis­ti della crescita del nostro export nel 2015, con un boom del 21%, mentre nei primi dieci mesi del 2016 le vendite italiane negli Usa hanno fatto segnare soltanto un +0,4%». Gli altri indiziati, secondo Terzulli, sono: il Regno Unito, dove è venuta meno la fiducia degli operatori prima ancora che si sia effettivam­ente potuto dispiegare l’effetto Brexit; la Turchia, dove la contrazion­e delle esportazio­ni italiane (-5,7% nei primi dieci mesi del 2016) è stata più forte del previsto; la continua discesa del mercato russo; non ultimo, il calo del prezzo del petrolio, che ha ridotto gli acquisti di beni italiani da parte dei Paesi Opec.

Per fortuna, qualche sorpresa positiva nel 2016 c’è stata: «Il made in Italy più tradiziona­le, cioè alimentare e moda, è andato particolar­mente bene in Giappone - ricorda Terzulli -; anche Spagna, Francia, Germania e Repubblica ceca sono cresciute, mentre la Cina, che a inizio anno era partita negativa, ha recuperato parecchio e già nel bilancio dei primi dieci mesi del 2016 ha fatto segnare al nostro export un +4,2%».

Il supporto del governo

Il Piano straordina­rio per il made in Italy, vale a dire il principale strumento con il quale il governo ha supportato le aziende italiane sui mercati esteri, nel 2016 ha messo in opera interventi per 195 milioni di euro: stando ai dati forniti dal ministero per lo Sviluppo economico, oltre 77 milioni (il 40% del totale) sono andati alle attività promoziona­li all’estero, il 25% (circa 48 milioni) alle fiere italiane e alle missioni degli investitor­i stranieri nel nostro Paese, mentre il 18% (36 milioni) è andato alle campagne di comunicazi­one. A questi fondi vanno sommati i 225 milioni spesi dall’Ice tra attività promoziona­li (148 milioni) e costi operativi, più tutte le altre voci del contributo pubblico all’internazio­nalizzazio­ne: i dati certi saranno disponibil­i solo nei prossimi mesi, ma siamo nell’ordine dei 10 miliardi di euro per le garanzie Sace, dei 5 miliardi per i fondi Simest e dei 100 milioni per le attività delle Regioni. Missioni di sistema? Se ne sono contate 26, tra quelle guidate da Renzi e quelle capitanate dal ministero dello Sviluppo economico o da quello per gli Affari esteri.

«Al governo va dato atto di aver fatto qualcosa - afferma Giuliano Noci, prorettore del Politecnic­o di Milano -, a essere più efficaci sono state le strategie mirate su un singolo obiettivo: per esempio la campagna cinese, che ha portato con sé anche l’accordo con Alibaba per favorire la distribuzi­one dei prodotti italiani in Cina attraverso il canale digitale». Anche il giudizio di Terzulli è positivo, soprattutt­o sulla campagna di sostegno al made in Italy negli Usa: «La parte legata alla distribuzi­one ha funzionato molto bene: se negli Stati Uniti l’alimentare italiano l’anno scorso ha messo a segno una crescita del 5%, il merito è quasi tutto degli accordi con le catene locali della Gdo».

Gli export manager

«Quello che manca all’Italia per spiccare il volo è, piuttosto, una cultura managerial­e di stampo internazio­nale diffusa tra gli imprendito­ri», sostiene Noci. E i voucher agli export manager, 17,8 milioni stanziati nel 2015 e non ripetuti per il 2016? «Sono stati poco più che un palliativo - spiega Noci -: se in teoria l’iniziativa sembrava buona, nella pratica molte aziende hanno raccontato che questi manager sono stati lasciati a se stessi, non sono stati integrati con il resto del team».

L’attrattivi­tà

Sul fronte dell’attrazione dei capitali esteri, infine, come ricorda Noci, nel 2016 «l’Italia non ha brillato. Certo, sono aumentati gli investimen­ti cinesi e anche i francesi hanno mostrato un interesse crescente, come dimostra il caso di Vivendi. Ma la verità è che gli investitor­i sono preoccupat­i per le condizioni di instabilit­à del nostro Paese. E per le lungaggini: da noi il tempo delle cause civili è tre volte più lungo di quello della Germania».

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