Rallenta il passo dell’Italia all’estero
Sulla bilancia commerciale hanno pesato soprattutto il calo delle vendite verso gli Usa, ma anche Regno Unito, Turchia e Russia Crescita dell’export sotto l’1% - Con il Piano straordinario per il made in Italy sul piatto 200 milioni
Il 2016 che anno è stato per l’internazionalizzazione dell’Italia? Per le esportazioni è un bilancio magro. I dati si fermano al +0,2% dei primi dieci mesi dell’anno, ma secondo le stime dell’ufficio studi di Sace il 2016 dovrebbe chiudersi con una performance compresa tra +0,5 e +0,8 per cento. Una crescita lenta, insomma, come nel 2013, ben lontana da quel +3,9% messo a segno dal nostro export nel 2015.
pIl 2016 si è appena chiuso. Che anno è stato per l’internazionalizzazione dell’Italia? Per le esportazioni, tanto per cominciare, quello del 2016 è un bilancio magro. I dati certi si fermano al +0,2% dei primi dieci mesi dell’anno, ma secondo le stime dell’ufficio studi di Sace abbiamo chiuso il 2016 con una performance compresa tra +0,5 e +0,8 per cento. Una crescita lenta, insomma, come nel 2013. Ben lontana da quel +3,9% messo a segno dal nostro export nel 2015. Allora riuscimmo ad andare più veloci del commercio mondiale, il cui tasso di incremento complessivo, secondo la Wto, fu del 2,8%; nel 2016, invece, abbiamo fatto peggio della media globale degli scambi, che si stima sia cresciuta dell’1,7 per cento.
I nodi dell’export
Che cosa non ha funzionato? «Il primo “colpevole” sono gli Stati Uniti - risponde Alessandro Terzulli, chief economist di Sace -: furono loro i veri protagonisti della crescita del nostro export nel 2015, con un boom del 21%, mentre nei primi dieci mesi del 2016 le vendite italiane negli Usa hanno fatto segnare soltanto un +0,4%». Gli altri indiziati, secondo Terzulli, sono: il Regno Unito, dove è venuta meno la fiducia degli operatori prima ancora che si sia effettivamente potuto dispiegare l’effetto Brexit; la Turchia, dove la contrazione delle esportazioni italiane (-5,7% nei primi dieci mesi del 2016) è stata più forte del previsto; la continua discesa del mercato russo; non ultimo, il calo del prezzo del petrolio, che ha ridotto gli acquisti di beni italiani da parte dei Paesi Opec.
Per fortuna, qualche sorpresa positiva nel 2016 c’è stata: «Il made in Italy più tradizionale, cioè alimentare e moda, è andato particolarmente bene in Giappone - ricorda Terzulli -; anche Spagna, Francia, Germania e Repubblica ceca sono cresciute, mentre la Cina, che a inizio anno era partita negativa, ha recuperato parecchio e già nel bilancio dei primi dieci mesi del 2016 ha fatto segnare al nostro export un +4,2%».
Il supporto del governo
Il Piano straordinario per il made in Italy, vale a dire il principale strumento con il quale il governo ha supportato le aziende italiane sui mercati esteri, nel 2016 ha messo in opera interventi per 195 milioni di euro: stando ai dati forniti dal ministero per lo Sviluppo economico, oltre 77 milioni (il 40% del totale) sono andati alle attività promozionali all’estero, il 25% (circa 48 milioni) alle fiere italiane e alle missioni degli investitori stranieri nel nostro Paese, mentre il 18% (36 milioni) è andato alle campagne di comunicazione. A questi fondi vanno sommati i 225 milioni spesi dall’Ice tra attività promozionali (148 milioni) e costi operativi, più tutte le altre voci del contributo pubblico all’internazionalizzazione: i dati certi saranno disponibili solo nei prossimi mesi, ma siamo nell’ordine dei 10 miliardi di euro per le garanzie Sace, dei 5 miliardi per i fondi Simest e dei 100 milioni per le attività delle Regioni. Missioni di sistema? Se ne sono contate 26, tra quelle guidate da Renzi e quelle capitanate dal ministero dello Sviluppo economico o da quello per gli Affari esteri.
«Al governo va dato atto di aver fatto qualcosa - afferma Giuliano Noci, prorettore del Politecnico di Milano -, a essere più efficaci sono state le strategie mirate su un singolo obiettivo: per esempio la campagna cinese, che ha portato con sé anche l’accordo con Alibaba per favorire la distribuzione dei prodotti italiani in Cina attraverso il canale digitale». Anche il giudizio di Terzulli è positivo, soprattutto sulla campagna di sostegno al made in Italy negli Usa: «La parte legata alla distribuzione ha funzionato molto bene: se negli Stati Uniti l’alimentare italiano l’anno scorso ha messo a segno una crescita del 5%, il merito è quasi tutto degli accordi con le catene locali della Gdo».
Gli export manager
«Quello che manca all’Italia per spiccare il volo è, piuttosto, una cultura manageriale di stampo internazionale diffusa tra gli imprenditori», sostiene Noci. E i voucher agli export manager, 17,8 milioni stanziati nel 2015 e non ripetuti per il 2016? «Sono stati poco più che un palliativo - spiega Noci -: se in teoria l’iniziativa sembrava buona, nella pratica molte aziende hanno raccontato che questi manager sono stati lasciati a se stessi, non sono stati integrati con il resto del team».
L’attrattività
Sul fronte dell’attrazione dei capitali esteri, infine, come ricorda Noci, nel 2016 «l’Italia non ha brillato. Certo, sono aumentati gli investimenti cinesi e anche i francesi hanno mostrato un interesse crescente, come dimostra il caso di Vivendi. Ma la verità è che gli investitori sono preoccupati per le condizioni di instabilità del nostro Paese. E per le lungaggini: da noi il tempo delle cause civili è tre volte più lungo di quello della Germania».