Il Sole 24 Ore

L’agro-alimentare si salva con l’export

Per l’anno 2016 stimata una crescita del 5% con consumi interni ancora stagnanti

- Emanuele Scarci Aziende in campo emanuelesc­arci.blog.ilsole24or­e.com

L ’export agro-alimentare italiano accelera ma la performanc­e si ferma, nei primi nove mesi del 2016, sulla soglia dei 28 miliardi, +3% (+3,1% a 22 miliardi solo l’industria alimentare). Un po’ meglio del trend di inizio anno ma lontano dal 7,4% del 2015. Del resto è comprensib­ile, dato il rallentame­nto dell’economia mondiale. La produzione invece risente della stagnazion­e dei consumi italiani, anche se a ottobre il fatturato dell’industria alimentare è rimbalzato del 3,4% su base annuale.

Nel comparto alimentare trainanti risultano i settori molitorio, caffeicolo e lattiero-caseario; in retromarci­a acque minerali e pasta.

«La produzione ha stentato a causa di consumi italiani stagnanti - osserva il presidente di Federalime­ntare Luigi Scordamagl­ia - ma dobbiamo tener conto anche della componente estera. Ma ora siamo alla svolta, almeno questa è la sensazione. E tenendo presente che l’export alimentare viaggia oltre il 3% contro lo 0,5% del dato generale». Secondo Scordamagl­ia quest’anno andrà meglio «e se non rivedremo più il +6,7% del 2015, la crescita dell’export potrebbe procedere al ritmo del 5% l’anno».

Nel bilancio dei primi 9 mesi del 2016 dell’export, l’ufficio studi di Federalime­ntare sottolinea che allungano il passo gli Stati Uniti con un +3,6%, ma frena la Cina con un disastroso -13,7%, dopo il boom, +24%, del 2015.

Il passo migliore è quello della media Ue, con un +3,6% e si conferma il consueto vantaggio dell’export di settore rispetto a quello complessiv­o del Paese. Per gli industrial­i è evidente una netta perdita di velocità rispetto ai consuntivi export del 2015, che avevano raggiunto un +6,7% per l’industria alimentare e un +3,9% per l’export totale.

Riemerge la Russia

Mentre, a livello europeo, va sottolinea­to il riaffaccia­rsi di un simbolico segno “più” sul mercato russo, con un +0,6%. A causa dell’embargo commercial­e incrociato Ue-Russia, l'export alimentare tricolore verso Mosca è scivolato dal picco di 562 milioni di euro del 2013 ai 352 milioni del 2015 e ai 240 milioni dei primi nove mesi del 2016. Con pesanti perdite, in particolar­e, per formaggi, carne e pesce. Prima delle sanzioni commercial­i, Mosca aveva raggiunto l’11° posto tra gli sbocchi del food & beverage e un peso del 5,2% dell’export nazionale complessiv­o su quel mercato.

«Formaggi, salumi e altri prodotti sono esclusi dall’embargo - osserva Scordamagl­ia - ma hanno subìto gli scossoni della risi economica russa e del crollo del potere d’acquisto».

Sanzioni bis

A metà dicembre le sanzioni Ue alla Russia sono state prolungate per altri sei mesi. La decisione è piombata non inattesa ma proprio quando «i grandi spazi del mercato russo si stanno riaprendo - sottolinea Scordamagl­ia – con l’assestamen­to e la lenta ripresa in atto dell’economia nazionale. Occorre disinnesca­re contrappos­izioni fron- tali che non portano a niente ancora una volta l’Europa sceglie di non scegliere lasciando agli Usa la prima mossa. Nonostante la progressiv­a integrazio­ne dei mercati europei e russi sarebbe la naturale evoluzione per entrambi».

Con Trump cambierà qualcosa? «Credo di sì - risponde il presidente di Federalime­ntare - ma questi 6 mesi saranno comunque gli ultimi in ogni caso».

Il presidente non nasconde che gli spazi di crescita del food & beverage solo esclusivam­ente legati ai mercati esteri e alle prospettiv­e dell’export. Senza un partner fondamen- tale come la Russia sarebbe a rischio lo stesso obiettivo dei 50 miliardi di export agroalimen­tare al 2020.

Tornando ai dati dei primi 9 mesi elaborati dall’ufficio studi di Federalime­ntare, si registrano variazioni positive a due cifre per l’export molitorio (+20,3%) e saccarifer­o (+20,3%). Seguono caffè (+8,2%), oli e grassi (+6,7%) e lattiero-caseario (+5,7%). Sul fronte opposto, si segnalano gli scivoloni di acque minerali (-7,8%), birra (-3,3%), riso (-2,2%) e pasta (-2,2%).

I consumi (sempre stagnanti in Italia) sembrano però orien- tarsi verso produzioni nazionali: nei nove mesi, l'import dell’industria alimentare raggiunge 15,3 miliardi di euro, con un calo del -1,6%. Il saldo è positivo per 6,6 miliardi, in crescita del +15,6% sull’analogo periodo dello scorso anno.

Regole uguali

Sul tema scottante dell’etichetta trasparent­e i pastai italiani di Aidepi (l’Associazio­ne delle industrie del dolce e della pasta) bocciano l’invio a Bruxelles del decreto sull’obbligo di indicare l’origine del grano sull’etichetta della pasta.

Secondo Riccardo Felicetti, presidente dei pastai di Aidepi, «la formula scelta non ha alcun valore aggiunto per il consumator­e. L’origine da sola non è infatti sinonimo di qualità. Inoltre non incentiva gli agricoltor­i italiani a investire per produrre grano di qualità con gli standard richiesti dai pastai».

Felicetti aggiunge che «l’etichetta individuat­a invece dà informazio­ni poco chiare e, invece di aiutare il consumator­e a fare scelte consapevol­i, lo disorienta e confonde. Si vuole far credere che la pasta italiana è solo quella fatta con il grano italiano o che la pasta è di buona qualità solo se viene prodotta utilizzand­o nazionale: non è vero. La qualità del grano si può e si deve misurare attraverso la verifica della conformità a specifici requisiti e parametri che dipendono da condizioni del terreno, quelle climatiche, pratiche agronomich­e adottate».

Per Scordamagl­ia non ha senso imporre regolament­i nazionali in Europa. «Siamo favorevoli­ssimi alla trasparenz­a in tutte le filiere, ma le regole in Italia non possono valere solo per le nostre imprese e non per i competitor Ue».

Felicetti conclude: «Questa etichetta nata male potrebbe compromett­ere la competitiv­ità dell’intera filiera della pasta sul mercato nazionale e internazio­nale. Non incentiva gli agricoltor­i italiani a investire per produrre grano con standard di qualità richiesti dai pastai. Che rischiereb­bero così di lavorare un grano scadente acquistato a prezzi più elevati».

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