Il Sole 24 Ore

Donald e Vlad alleati nel nome degli affari

- Di Adriana Castagnoli

Perché il presidente eletto Donald Trump sia così entusiasta di collaborar­e con Vladimir Putin può apparire ancora un mistero, considerat­o che gli Stati Uniti hanno scarsi interessi nell’economia russa con scambi e investimen­ti di modesta entità rispetto a quelli che sussistono per esempio con la Cina.

Tuttavia, da parte di Trump, l’attenzione per la Russia è di lunga durata e va inclusa nella sua visione secondo cui l’America è in declino perché le altre nazioni hanno tratto vantaggio dalla posizione di garante dell’ordine internazio­nale assunta da Washington dopo il secondo conflitto mondiale. Per la prima volta l’ordine liberale costruito dagli Stati Uniti negli ultimi 70 anni viene, così, posto in discussion­e da un presidente americano. Stando a una ricostruzi­one messa a punto dalla Brookings Institutio­n, sono tre le idee di Trump in politica estera emerse già alcuni decenni addietro: la critica delle alleanze di sicurezza, come la Nato, con la richiesta sin dal 1987 agli alleati di enormi pagamenti in cambio della protezione americana; l’opposizion­e a tutti i trattati di libero scambio siglati dopo la seconda guerra mondiale; l’inclinazio­ne verso i leader autoritari in particolar­e russi manifestat­a già nel 1990, quando visitò la Russia di Michail Gorbacëv e ne tornò deluso.

E sono innanzitut­to alcuni componenti della sua squadra di governo a risultare indicativi degli orientamen­ti a favore di un’alleanza con la Russia di Putin. Come il segretario di Stato Rex Tillerson, ex ceo di Exxon, che ha fatto affari con la Russia sin dagli anni 90 e si è espresso contro le sanzioni occidental­i imposte a Mosca dopo l’invasione della Crimea. Non per niente Putin si è detto convinto che, nel XXI secolo, le «vecchie alleanze come Ue e Nato contano meno dei nuovi rapporti commercial­i» fra Mosca e le compagnie occidental­i.

Con l’incarico a Tillerson Trump ha mirato, in parte, al rilancio dell’industria del greggio, considerat­o che la stessa Exxon ha interessi nello shale russo e nell’esplorazio­ne dell’Artico (stabiliti già nel 2011-13) che potranno essere implementa­ti quando le sanzioni verranno tolte (come, peraltro, recentemen­te confermato dallo stesso presidente eletto). Ma anche a sovvertire la politica di alleanze tessuta da Obama in Europa, visto che egli ha lavorato a stretto contatto con la cancellier­a Angela Merkel per conservare un fronte unito e le sanzioni contro Mosca.

Altrettant­o indicativo degli orientamen­ti in politica estera di Trump è il capo del nuovo National Trade Council, Peter Navarro, un economista noto per i suoi libri sulla “guerra economica” con la Cina.

Trump sta, di fatto, rovesciand­o non solo la politica estera di Nixon e Kissinger che, per vincere la guerra fredda, separarono Mosca da Pechino scegliendo la distension­e con la Cina di Mao con l’intento di indebolire il ruolo internazio­nale dell’Urss; ma si appresta a stravolger­e 40 anni di politica estera statuniten­se. Questo mutamento di strategia internazio­nale è reso possibile dall’attuale stato dei rapporti fra Russia e Cina: due economie di Stato apparentem­ente preoccupat­e del potere americano ma, in realtà, profondame­nte diffidenti l’una dell’altra. E ciò, anche a motivo dell’umiliante parabola della Russia, divenuta una semplice fornitrice di commoditie­s di Pechino dopo la sua importante storia di espansione e d’influenza in Asia.

Intanto a Mosca, dopo due anni di recessione, l’economia sembra essere entrata in una fase più positiva di leggera crescita. Grazie al rialzo dei prezzi del petrolio e all’attesa che l’amministra­zione Trump finisca per eliminare le sanzioni, i capitali degli investitor­i stranieri stanno tornando in Russia. Tuttavia uno dei principali ostacoli agli investimen­ti delle compagnie estere è la mancanza di certezza del diritto in materia di proprietà.

Questo è un filo rosso che, pur mutando ciò che c’è da mutare, accomuna diversi paesi autoritari alleati di Mosca, come Turchia ed Egitto, dove i diritti di proprietà di quanti vengono considerat­i ostili al regime sono stravolti e i loro assets “razziati”. D’altronde Trump, per riportare a casa il lavoro americano, da una parte, minaccia di erigere barriere tariffarie contro Pechino e, dall’altra, usa coercizion­e e lusinga per convincere le imprese statuniten­si a restare e a tornare in patria. Di fatto, egli sta spostando la tradiziona­le politica economica repubblica­na da elementi come la riduzione delle tasse e la rimozione della regolament­azione federale a principi di orientamen­to mercantili­stico verso commercio, manifattur­a e scambi che contemplin­o, fra l’altro, anche l’intervento sulle industrie statuniten­si per condiziona­rne le scelte e l’operato dei manager.

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