I dannosi alfieri di Trump
Donald Trump a un certo punto dovrà chiederselo, gli conviene davvero affidarsi a chi gli ha fatto vincere le elezioni per governare? Perché a giudicare dai risultati, per ora, le cose non potevano andare peggio.
Si privilegia una promessa elettorale o una scelta ideologica sull’opportunità di governare al meglio. Così Trump, invece di riunire il Paese ha contribuito ad aggravarne le spaccature. I sondaggi lo confermano: gli indici di gradimento restano molto bassi, una media di realclearpolitics.com ci dice che il 57% degli americani disapprova l’operato di Trump. Nello stesso periodo, Clinton aveva circa il 60% a favore, Eisenhower il 68%, Kennedy il 70%, Johnson quasi l’80%, Nixon il 60%, Ford il 70%, Carter quasi il 70%, Reagan il 55%, Bush Sr il 52%, Bush Jr il 60%, Obama il 70%. Trump è l’unico, con il 43%, ad aver un gradimento al di sotto del 50 per cento.
La spiegazione è scritta nella storia, dopo un’elezione americana il nuovo vincitore cerca di abbracciare tutto il Paese, almeno nella forma. Ma la risposta è anche scritta nelle pagine di cronaca dei nostri giorni. Lo confermano i marchiani errori procedurali di certi ordini esecutivi, i toni provocatori, l’antagonismo come regola, anche con gli amici. Se è giusto soddisfare e riconoscere i militanti che hanno contribuito a una vittoria elettorale, affidargli le chiavi della Casa Bianca è pericoloso. Ne abbiamo la prova in almeno dieci eventi a cui ha partecipato Trump in questi primi giorni della sua amministrazione. L’ultimo? Non ha menzionato gli ebrei nel brevissimo comunicato con cui ha celebrato la giornata dell’Olocausto. Non era mai successo prima, ma la base dell’Alt Right è antisemita, attacca giornalisti ebrei per il semplice fatto di esserlo. E Trump è stato accusato di averlo fatto per accontentare quella base incoraggiato da uno dei suoi fedelissimi. Forse Trump non si accorge del danno che gli deriva dal consiglio dei suoi alfieri elettorali, nella loro testa in corsa elettorale permanente.
Eppure sembrava che avesse capito quanto fosse importante farlo: subito dopo la vittoria, Trump non aveva dato un incarico operativo a Stephen Bannon,ideologo dell’Alt Right, figura centrale per la vittoria elettorale. Lo aveva nominato semplicemente “consigliere strategico”. La scelta del capo di gabinetto, di colui che ha in mano l’agenda della Casa Bianca cadde invece su Reince Priebus, presidente del Partito Repubblicano, una figura moderata, punto di unione con un partito molto distante dal Trump candidato. «Trump si prepara a un governo serio», si diceva.
Sul piano pratico però, alla fine hanno prevalso gli strateghi dell’insulto. Per primo Bannon, fomentatore di movimenti di estrema destra attraverso il suo gruppo editoriale Breitbart News, nemico giurato dei giornalisti («dovreste stare zitti, smetterla di parlare e riflettere invece sui vostri errori» aveva detto al New York Times). C’è poi l’ex generale Michael Flynn, capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale considerato durissimo, molto ideologico, reattivo e l’unico ex militare non apprezzato dalle forze armate per il suo modo di fare istrionico e superdecisionista. Il terzo personaggio chiave è Kellyanne Conway, stratega della comunicazione, anche lei consigliere del Presidente e, infine, il portavoce Sean Spicer che passerà alla storia per aver convocato i giornalisti alla prima conferenza stampa della presidenza Trump solo per attaccarli: erano colpevoli, diceva, di aver sottostimato l’1,2 milioni di persone venute all’inaugurazione secondo Trump. Al massimo, secondo ogni stima, saranno stati 500mila! Abbiamo poi saputo che era andato a parlare alla stampa senza preavviso su ordine di Bannon.
Sono loro, i quattro, ad aver preso il controllo della Casa Bianca e dell’agenda politica. Hanno scritto gli ordini esecutivi, ora sul Messico, ora sugli immigrati da sette Paesi prevalentemente musulmani, e su tutto il resto. Linea dura contro i cinesi ad esempio, «bloccheremo l’accesso alle loro isole artificiali» diceva Trump. Per sentirsi dire da Pechino che sarebbe stato un atto di guerra. Questi ordini, e altri sono stati approvati da Trump soprattutto su suggerimento di Bannon in particolare, senza mai interpellare chi, nell’amministrazione, rappresenta la voce dell’esperienza.
Ci sono infatti i moderati, John Kelly, capo della Sicurezza Interna, Rex Tillerson - confermato ieri sera dal Senato segretario di Stato - Dan Coats, un ex senatore che guiderà la National Intelligence, Jim Mattis, segretario al Pentagono. Sono stati ignorati. Né sono mai stati consultati i repubblicani in Congresso o gli esperti, quelli veri, in grado di neutralizzare ordini esecutivi/mine vaganti. Ma forse la strategia è quella di far esplodere un caso. Di restare al centro delle news, di dominare la scena. Del resto Trump lo aveva già detto nel suo libro “The Art of the Deal”: «Entra in una stanza per negoziare, fai esplodere una granata. Esci dalla stanza. Poi rientri e fai l’accordo». Forse, ma finora abbiamo visto molte granate e pochi accordi.