I 160 miliardi che mancano alla Le Pen
Analisti, commentatori, economisti e politologi sono più o meno concordi nel ritenere che una vittoria di Marine Le Pen - presidente del partito populista “patriottico” (come ama autodefinirsi, rifiutando l’etichetta “estrema destra”) Front National – alle prossime presidenziali francesi rimane «altamente improbabile». Poiché però fino a un paio di mesi fa questo scenario era considerato (in maniera altrettanto unanime) «impossibile», i sondaggi ribadiscono settimana dopo settimana il suo solido posizionamento in testa al primo turno (con il 25-26% e un’immagine che non sembra intaccata dalle contestazioni del Parlamento europeo sul presunto lavoro fittizio come assistente del suo “bodygard”) e i mercati hanno ormai iniziato a integrare questa eventualità, un esercizio di valutazione e approfondimento del suo programma si impone.
Un programma (presentato pochi giorni fa e declinato in 144 misure) che risulta peraltro di difficile classificazione. Rispetto a cinque anni fa, l’obiettivo di allargare la base elettorale – andando a conquistare fasce di popolazione deluse dai socialisti e da François Hollande, che si sentono a torto o a ragione penalizzate e marginalizzate, disoccupati, operai, lavoratori precari, giovani poco qualificati – ha spinto la Le Pen ad amplificarne gli aspetti “keynesiani”. Il rischio di perdere però per la strada parte dell’elettorato tradizionale del partito – artigiani, commercianti, piccoli e piccolissimi imprenditori, persone più anziane e più agiate – ha imposto una recente correzione.
Il risultato di questo tentativo di intercettare tutto il malumore e il malessere presenti nel Paese – oltre alla necessità di trovare un compromesso tra le due grandi anime del partito – è che il programma, frutto di una dilatazio- ne dell’offerta politica, risulta appunto poco caratterizzato, ideologicamente poco coerente. Tant’è che viene di volta definito “liberal-protezionista” o “social-populista”.
Ma soprattutto – al di là dei facili slogan di forte impatto sull’uscita dall’euro, sulla preferenza nazionale, sul protezionismo – i conti, per usare un’espressione abusata, non tornano. Come segnalano tutti gli esperti indipendenti e come dimostra lo studio della Fondazione Concorde, aut ore volethink-tank“liberal” fondata e presieduta dall’ econonomista d’ impresa Michel Rousseau,l’ unica che perora ha cercato di misurare l’impatto economico del programma della Le Pen. E il cui giudizio sintetico non lascia dubbi: «La disinvoltura con cui il Front National affronta le diverse problematiche relative ai flussi finanziari – scrive Rousseau nella presentazione dell’analisi – dimostra ancora una volta l’inadeguatezza all’esercizio del pote- re. Se però questo dovesse avvenire, la Francia sarebbe gravamente penalizzata da un debito insostenibile, mentre il potere d’acquisto sarebbe ridotto in misura così brutale da creare una nuova coorte di disoccupati».
Cercando di sintetizzare al massimo, la Fondazione Concorde (che utilizza le cifre contenute nel programma) evidenzia tre grandi voci di spesa: 40 miliardi a favore delle famiglie (20 dei quali destinati a un aumento medio netto mensile di 80 euro per chi ha una retribuzione inferiore a 1.500 euro), 5,5 di sostegno fiscale nei confronti delle imprese e 41 miliardi per l’aumento del budget della difesa (da portare nel quinquennio del mandato presidenziale al 3% del Pil). Per un totale di 86,5 miliardi.
A queste si aggiungono però molte altre voci, il cui costo non è sempre esplicitato e che secondo Rousseau portano il totale a circa 145 miliardi (annui a regime), cioè 58,5 miliardi in più rispetto alle stime complessive fatte dal partito. Alcuni esempi: il ritorno alla pensione piena a 60 anni per chi ha almeno 40 anni di contribuzione (35 miliardi); l’abbandono della Pac con il passaggio a una politica agricola nazionale (9 miliardi); la compensazione degli aiuti ricevuti da imprese ed enti locali attraverso i fondi strutturali europei, visto che nell’ipotesi di un’uscita dall’Europa non ci saranno più (4 miliardi); la costruzione di 40mila posti supplementari nelle carceri (1,7 miliardi); lo stop al congelamento degli aumenti automatici dei dipendenti pubblici (1,5 miliardi).
Quanto al finanziamento di questa spesa, tra nuove entrate e risparmi, il programma parla di 82 miliardi. Tra cui 21 a titolo della nuova tassa del 3% sulle importazioni, 20 miliardi di cessata contribuzione all’Unione europea, 10 miliardi di minori costi alla voce generica di “immigrazione” (meno ingressi, fine del servizio medico pubblico gratuito e delle prestazioni scolastiche), 2 con l’imposta del 10% sull’assunzione di lavoratori stranieri (europei compresi). La Fondazione ne trova invece solo 54. Quindi mancano 90 miliardi.
Se poi, come scrive la Le Pen, l’obiettivo è di arrivare a un deficit all’1,3% nel 2022, bisogna trovare altri 38 miliardi, perché la previsione è basata su ipotesi di crescita (intorno al 2,5% medio annuo) che sembrano irrealizzabili.
L’uscita dall’euro – su questo punto la Fondazione riprende le stime della Banca di Francia – si tradurrebbe in uno spread pari «ad almeno 300 punti base», rispetto agli attuali 70. Con un maggior costo di rifinanziamento del debito pubblico (detenuto al 60% da mani estere) previsto in oltre 30 miliardi all’anno. Tralasciando che le agenzie di rating hanno già fatto sapere che un’eventuale decisione unilaterale delle condizioni di finanziamento (come sarebbe quella di un ritorno al franco, o comunque a una moneta nazionale) verrebbe gestita come un default. O la drammatica situazione in cui si troverebbero le aziende, il cui debito complessivo (circa 4.200 miliardi) è il doppio di quello dello Stato.
Conclusione: l’applicazione del programma del Front National (anche se certo, un conto è quello che si promette in campagna elettorale e un altro quello che si farà davvero) costerebbe circa 213 miliardi all’anno a regime. E per finanziarla mancano circa 159 miliardi.
Senza trascurare il fatto che alcune delle misure previste (non ultima la fine dell’indipendenza della banca centrale, che riprenderebbe a stampare moneta al servizio dello Stato) avrebbero un forte impatto sull’inflazione, con un aumento dei prezzi compreso tra il 7% e il 9% fin dal primo anno. Poiché è impensabile che le retribuzioni aumentino di pari passo, è possibile immaginare che nel 2022 la perdita di potere d’acquisto per un salario medio di 1.772 euro netti sia compreso tra i 104 e i 139 euro al mese.