Su licenziamenti e produttività attacco ai tabù ma troppi compromessi
Dopo aver discettato di trasparenza all’inglese e aver riscritto le regole su autorizzazioni e conferenza dei servizi, dopo essere inciampata nel «no» costituzionale su partecipate e servizi pubblici locali, la riforma della Pubblica amministrazione arriva al cuore del problema: la riorganizzazione del personale. Ci arriva, però, un anno e mezzo dopo l’approvazione della delega, con un governo cambiato e circondato da tensioni crescenti in Parlamento e non solo. Così la delega è stata approvata mentre un governo Renzi in piena forma predicava la «disintermediazione» mentre i decreti attuativi, arrivati in una stagione diversa, servono ad attuare i contenuti del maxiaccordo con i sindacati che il 30 novembre scorso ha segnato la ripresa in grande stile della concertazione nel pubblico impiego. Un accordo che chiede anche di trovare un miliardo e mezzo aggiuntivo per il rinnovo dei contratti, in una legge di bilancio che già si annuncia in bilico fra 19 miliardi di clausole Iva e un debito pubblico che fa crescere gli allarmi in Europa.
In questo contesto, la delicatezza politica e tecnica dei temi in gioco ha già prodotto una dose ampia di compromessi. Dai licenziamenti ai premi di produttività, le lunghe settimane di confronto con i sindacati hanno alimentato un tira e molla sulle regole che non è ancora terminato. Sull’articolo 18 la tensione è stata interna allo stesso governo, ma va riconosciuto alla ministra Marianna Madia di aver avallato il primo ritocco a uno dei tabù più resistenti nel dibattito italiano sul lavoro pubblico: l’articolo 18 rivisto dai decreti approvati ieri mantiene, è vero, la reintegra pre-Fornero per tutti i licenziamenti illegittimi, ma fissa un tetto al risarcimento economico fino a oggi di fatto illimitato. Più sostanziali, anche se meno appassionanti per il dibattito ideologico che spesso circonda il tema, si rivelano allora gli interventi sui procedimenti disciplinari, a partire da quello che evita ai vizi formali e procedurali di far cadere le sanzioni. Un modo per evitare le tattiche dilatorie e le battaglie dei cavilli che in passato hanno portato i giudici (Cassazione compresa) a decidere il reintegro dopo aver discusso di tempi della notifica o di composizione della commissione disciplinare invece che delle responsabilità effettive del dipendente sanzionato.
Anche sui premi, il compromesso domina. Le regole draconiane del 2009 erano state scritte più per alimentare gli annunci di un cambio di rotta che per essere applicate davvero. E porre l’accento sui risultati degli uffici prima che sul singolo dipendente ha un senso, perché il livello dei servizi dipende dal funzionamento della macchina pubblica più che dalla lotta darwiniana fra i dipendenti. Ma lasciare tutto ai contratti, limitandosi a predicare una «differenziazione significativa» di giudizi e buste paga, rischia però di rivelarsi un’arma troppo debole per combattere la resistenza passiva della Pa. E se sarà così, a pagare saranno ancora una volta gli uffici e i dipendenti migliori, che hanno già versato un dazio pesante sull’altare dell’egualitarismo in busta paga.