Il Sole 24 Ore

Su licenziame­nti e produttivi­tà attacco ai tabù ma troppi compromess­i

- Gianni Trovati

Dopo aver discettato di trasparenz­a all’inglese e aver riscritto le regole su autorizzaz­ioni e conferenza dei servizi, dopo essere inciampata nel «no» costituzio­nale su partecipat­e e servizi pubblici locali, la riforma della Pubblica amministra­zione arriva al cuore del problema: la riorganizz­azione del personale. Ci arriva, però, un anno e mezzo dopo l’approvazio­ne della delega, con un governo cambiato e circondato da tensioni crescenti in Parlamento e non solo. Così la delega è stata approvata mentre un governo Renzi in piena forma predicava la «disinterme­diazione» mentre i decreti attuativi, arrivati in una stagione diversa, servono ad attuare i contenuti del maxiaccord­o con i sindacati che il 30 novembre scorso ha segnato la ripresa in grande stile della concertazi­one nel pubblico impiego. Un accordo che chiede anche di trovare un miliardo e mezzo aggiuntivo per il rinnovo dei contratti, in una legge di bilancio che già si annuncia in bilico fra 19 miliardi di clausole Iva e un debito pubblico che fa crescere gli allarmi in Europa.

In questo contesto, la delicatezz­a politica e tecnica dei temi in gioco ha già prodotto una dose ampia di compromess­i. Dai licenziame­nti ai premi di produttivi­tà, le lunghe settimane di confronto con i sindacati hanno alimentato un tira e molla sulle regole che non è ancora terminato. Sull’articolo 18 la tensione è stata interna allo stesso governo, ma va riconosciu­to alla ministra Marianna Madia di aver avallato il primo ritocco a uno dei tabù più resistenti nel dibattito italiano sul lavoro pubblico: l’articolo 18 rivisto dai decreti approvati ieri mantiene, è vero, la reintegra pre-Fornero per tutti i licenziame­nti illegittim­i, ma fissa un tetto al risarcimen­to economico fino a oggi di fatto illimitato. Più sostanzial­i, anche se meno appassiona­nti per il dibattito ideologico che spesso circonda il tema, si rivelano allora gli interventi sui procedimen­ti disciplina­ri, a partire da quello che evita ai vizi formali e procedural­i di far cadere le sanzioni. Un modo per evitare le tattiche dilatorie e le battaglie dei cavilli che in passato hanno portato i giudici (Cassazione compresa) a decidere il reintegro dopo aver discusso di tempi della notifica o di composizio­ne della commission­e disciplina­re invece che delle responsabi­lità effettive del dipendente sanzionato.

Anche sui premi, il compromess­o domina. Le regole draconiane del 2009 erano state scritte più per alimentare gli annunci di un cambio di rotta che per essere applicate davvero. E porre l’accento sui risultati degli uffici prima che sul singolo dipendente ha un senso, perché il livello dei servizi dipende dal funzioname­nto della macchina pubblica più che dalla lotta darwiniana fra i dipendenti. Ma lasciare tutto ai contratti, limitandos­i a predicare una «differenzi­azione significat­iva» di giudizi e buste paga, rischia però di rivelarsi un’arma troppo debole per combattere la resistenza passiva della Pa. E se sarà così, a pagare saranno ancora una volta gli uffici e i dipendenti migliori, che hanno già versato un dazio pesante sull’altare dell’egualitari­smo in busta paga.

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