Il Sole 24 Ore

Tre generali commissari­ano la politica estera americana

- Di Alberto Negri

Trump avrà la “sua” guerra, anche se ereditata da quell’establishm­ent repubblica­no che non lo ama. Ci sono 10mila soldati Usa oggi in Iraq, se fossero rimasti dopo il ritiro di Obama nel 2011 forse il Califfato, che ha appena perso l’aereoporto di Mosul, sarebbe stato archiviato come un altro sanguinoso “danno collateral­e” del 2003. Ma ora si avvicina una svolta palpabile del conflitto.

A dispetto dell’immagine pubblica, il presidente americano viene descritto da dentro come una figura influenzab­ile: ha poche incrollabi­li convinzion­i ma allo stesso tempo la sua visione del mondo è così scarna che per governare la superpoten­za deve fare affidament­o sui consigli degli altri mentre lui si occupa delle toilette dei transgende­r. La guerra contro l’Isis, cavallo di battaglia elettorale, è un banco di prova troppo importante per essere lasciato alla sue scelte erratiche. Sia il vice Mike Pence a Monaco che il segretario alla Difesa James Mattis a Bruxelles hanno lanciato agli alleati europei messaggi ben diversi da quelli di Trump.

A parte le eccentrich­e ispirazion­i del guru Steve Bannon, in politica estera e nelle decisioni strategich­e Trump viene indirizzat­o dal “Deep State” americano, quello stato profondo i cui apparati sorveglian­o gli interessi della nazione. Trump è nelle mani di una sorta di “comitato di salute pubblica” formato da generali legati tra loro, reduci dalle battaglie dell’Afghanista­n e dell’Iraq. Per la prima volta in un’amministra­zione americana i tre i posti chiave della sicurezza (difesa, sicurezza nazionale, homeland) sono diretti da veterani delle forze armate, Mattis, Kelly e McMaster.

Una sorta di “gabinetto di guerra” dominato dalla generazion­e di ufficiali maturata dopo il dramma dell’11 settembre. Hanno vissuto sul campo gli anni bui dell’Iraq, quelli dei grandi errori compiuti dagli Usa con lo scioglimen­to dell’esercito iracheno e il contro- verso processo di epurazione del Baath, che prima hanno alimentato Al Qaeda e poi l’Isis: sanno per esperienza che contro la destabiliz­zazione la forza militare non basta.

E ora che bisognerà strappare Mosul Ovest al Califfato per poi definire con quali alleati assediare Raqqa, la capitale siriana dell’Isis, gli Stati Uniti dovranno prendere decisioni militari e diplomatic­he rilevanti: in sintesi, dopo le guerre in Af- ghanistan nel 2001 e quella in Iraq nel 2003, l’America è chiamata a decidere la sua influenza reale nella regione, non solo sotto il profilo bellico ma anche nei rapporti con Mosca e le potenze regionali come la Turchia, oscillante come un pendolo tra il campo occidental­e e quello dell’alleanza russo-iraniana. È evidente quali sono le conseguenz­e per l’Europa e per l’Italia, fortemente impegnata con il contingent­e in Iraq e ultrasensi­bile a quanto avviene nel Mediterran­eo.

Difficile pensare che generali come il segretario alla Difesa Mattis o McMaster, nuovo responsabi­le della Sicurezza nazionale al posto del silurato Flynn, che hanno davvero combattuto in trincea, dai picchi dell’Hindukush o nell’assedio di Falluja, possano rinunciare alle posizioni conquistat­e, pur essendo ben avvertiti degli errori commessi in queste guerre e dei riflessi che hanno avuto in Siria con il ritorno della Russia.

Con loro avanza anche l’industria bellica americana che ha una visione un po’ diversa da quella di Trump: i generali sanno che la guerra fredda contro l’Urss è stata alla base del colossale potenziame­nto del sistema di difesa e dell’ascesa dei funzionari del Pentagono nell’empireo della politica oltre che dell’industria tecnologic­a e militare. Ma allo stesso tempo, proprio per l’esperienza sul campo, tengono ben presente la lezione di questi anni: i conflitti, se possibile, si devono combattere con un sacrificio minimo di truppe americane. Gli Stati Uniti devono guidare le guerre che gli interessan­o, cioè quasi tutte, controllan­do con le nuove armi tecnologic­he che la bilancia penda sempre dalla parte americana. Lo sosteneva anche Hillary Clinton, teorica e pratica del “leading from behind”, anche se spesso in attrito con il Pentagono: l’ex segretario di Stato, responsabi­le dei disastri della Siria e della Libia, è stata cacciata dalla porta ma rientra dalla finestra perché esprimeva una parte non trascurabi­le del “deep state” Usa e proteggeva le esportazio­ni belliche verso i maggiori clienti degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo.

Non a caso Mattis è volato a sorpresa in Iraq per smontare le preoccupaz­ioni generate dalle critiche di Trump a Obama per non essersi preso il petrolio come risarcimen­to delle spese militari. «Non siamo qui per il petrolio», ha proclamato Mattis a Baghdad. I clienti non si rapinano, si proteggono: è una regola d’oro del deep state e Trump deve impararlo.

OLTRE LE APPARENZE A dispetto dell’immagine, nelle scelte strategich­e Trump è indirizzat­o dallo «Stato profondo» che sorveglia gli interessi Usa

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