Tre generali commissariano la politica estera americana
Trump avrà la “sua” guerra, anche se ereditata da quell’establishment repubblicano che non lo ama. Ci sono 10mila soldati Usa oggi in Iraq, se fossero rimasti dopo il ritiro di Obama nel 2011 forse il Califfato, che ha appena perso l’aereoporto di Mosul, sarebbe stato archiviato come un altro sanguinoso “danno collaterale” del 2003. Ma ora si avvicina una svolta palpabile del conflitto.
A dispetto dell’immagine pubblica, il presidente americano viene descritto da dentro come una figura influenzabile: ha poche incrollabili convinzioni ma allo stesso tempo la sua visione del mondo è così scarna che per governare la superpotenza deve fare affidamento sui consigli degli altri mentre lui si occupa delle toilette dei transgender. La guerra contro l’Isis, cavallo di battaglia elettorale, è un banco di prova troppo importante per essere lasciato alla sue scelte erratiche. Sia il vice Mike Pence a Monaco che il segretario alla Difesa James Mattis a Bruxelles hanno lanciato agli alleati europei messaggi ben diversi da quelli di Trump.
A parte le eccentriche ispirazioni del guru Steve Bannon, in politica estera e nelle decisioni strategiche Trump viene indirizzato dal “Deep State” americano, quello stato profondo i cui apparati sorvegliano gli interessi della nazione. Trump è nelle mani di una sorta di “comitato di salute pubblica” formato da generali legati tra loro, reduci dalle battaglie dell’Afghanistan e dell’Iraq. Per la prima volta in un’amministrazione americana i tre i posti chiave della sicurezza (difesa, sicurezza nazionale, homeland) sono diretti da veterani delle forze armate, Mattis, Kelly e McMaster.
Una sorta di “gabinetto di guerra” dominato dalla generazione di ufficiali maturata dopo il dramma dell’11 settembre. Hanno vissuto sul campo gli anni bui dell’Iraq, quelli dei grandi errori compiuti dagli Usa con lo scioglimento dell’esercito iracheno e il contro- verso processo di epurazione del Baath, che prima hanno alimentato Al Qaeda e poi l’Isis: sanno per esperienza che contro la destabilizzazione la forza militare non basta.
E ora che bisognerà strappare Mosul Ovest al Califfato per poi definire con quali alleati assediare Raqqa, la capitale siriana dell’Isis, gli Stati Uniti dovranno prendere decisioni militari e diplomatiche rilevanti: in sintesi, dopo le guerre in Af- ghanistan nel 2001 e quella in Iraq nel 2003, l’America è chiamata a decidere la sua influenza reale nella regione, non solo sotto il profilo bellico ma anche nei rapporti con Mosca e le potenze regionali come la Turchia, oscillante come un pendolo tra il campo occidentale e quello dell’alleanza russo-iraniana. È evidente quali sono le conseguenze per l’Europa e per l’Italia, fortemente impegnata con il contingente in Iraq e ultrasensibile a quanto avviene nel Mediterraneo.
Difficile pensare che generali come il segretario alla Difesa Mattis o McMaster, nuovo responsabile della Sicurezza nazionale al posto del silurato Flynn, che hanno davvero combattuto in trincea, dai picchi dell’Hindukush o nell’assedio di Falluja, possano rinunciare alle posizioni conquistate, pur essendo ben avvertiti degli errori commessi in queste guerre e dei riflessi che hanno avuto in Siria con il ritorno della Russia.
Con loro avanza anche l’industria bellica americana che ha una visione un po’ diversa da quella di Trump: i generali sanno che la guerra fredda contro l’Urss è stata alla base del colossale potenziamento del sistema di difesa e dell’ascesa dei funzionari del Pentagono nell’empireo della politica oltre che dell’industria tecnologica e militare. Ma allo stesso tempo, proprio per l’esperienza sul campo, tengono ben presente la lezione di questi anni: i conflitti, se possibile, si devono combattere con un sacrificio minimo di truppe americane. Gli Stati Uniti devono guidare le guerre che gli interessano, cioè quasi tutte, controllando con le nuove armi tecnologiche che la bilancia penda sempre dalla parte americana. Lo sosteneva anche Hillary Clinton, teorica e pratica del “leading from behind”, anche se spesso in attrito con il Pentagono: l’ex segretario di Stato, responsabile dei disastri della Siria e della Libia, è stata cacciata dalla porta ma rientra dalla finestra perché esprimeva una parte non trascurabile del “deep state” Usa e proteggeva le esportazioni belliche verso i maggiori clienti degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo.
Non a caso Mattis è volato a sorpresa in Iraq per smontare le preoccupazioni generate dalle critiche di Trump a Obama per non essersi preso il petrolio come risarcimento delle spese militari. «Non siamo qui per il petrolio», ha proclamato Mattis a Baghdad. I clienti non si rapinano, si proteggono: è una regola d’oro del deep state e Trump deve impararlo.
OLTRE LE APPARENZE A dispetto dell’immagine, nelle scelte strategiche Trump è indirizzato dallo «Stato profondo» che sorveglia gli interessi Usa