Sorveglianza a prova di prevedibilità
Strasburgo fissa le condizioni per le misure di prevenzione
pLe misure di prevenzione possono essere applicate, ma a patto che la legge fissi in modo chiaro le condizioni, per garantirne la prevedibilità e per limitare un’eccessiva discrezionalità nell’attuazione. Lo ha stabilito la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza di parziale condanna all’Italia pronunciata ieri (ricorso n. 43395/09). A rivolgersi a Strasburgo, un cittadino italiano colpito per due anni da una misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e obbligo di soggiorno secondo la legge n. 1423/1956, poi modificata dal Dlgs n. 159/2011.
Prima di tutto, la Grande Camera, il massimo organo giurisdizionale della Cedu, ha stabilito che la misura di prevenzione della sorveglianza speciale imposta al ricorrente non era equiparabile a una privazione della libertà personale, con la conseguenza che non è stato violato l'articolo 5 della Convenzione europea sul diritto alla libertà personale. Detto questo, però, Strasburgo ritiene che l’applicazione di misure che comportano l’obbligo o il divieto di soggiorno deve essere valutata in relazione all’articolo 2 del Protocollo n. 4 sulla libertà di circolazione. E’ vero – scrive la Grande Camera – che le misure avevano un fondamento nella legge, ma la loro applicazione era legata a un apprezzamento in prospettiva dei tribunali nazionali tanto più che la stessa Corte costituzionale non ha identificato con certezza la nozione di “elementi di fatto” o i comportamenti specifici da classificare come indice di pericolosità sociale. Così, non è stato rispettato il requisito della pre- vedibilità sia con riferimento ai destinatari delle misure di prevenzione, sia per le condizioni richieste. Quello che non convince la Corte è l’applicazione di misure preventive senza che gli individui possano sapere con chiarezza quali comportamenti, ritenuti pericolosi per società, possono far scattare l’applicazione dei provvedimenti. Di conseguenza, poiché la legge in vigore all’epoca della vicenda non aveva indicato con precisione le condizioni di applicazione e, tenendo conto dell’ampio margine di discrezionalità concesso alle autorità nazionali competenti, l’Italia ha violato la Convenzione, con un’evidente ingerenza nel diritto alla libertà di circolazione. Tanto più che al ricorrente non era stato imputato un comportamento o un’attività criminale specifica perché il tribunale competente aveva soltanto richiamato il fatto che aveva frequentazioni assidue con criminali importanti. La decisione, così, è stata fondata sul postulato di una tendenza a delinquere. Di qui la conclusione che la legge in vigore all’epoca dei fatti non offriva una garanzia adeguata contro ingerenze arbitrarie. La Corte, invece, ha respinto il ricorso per violazione delle regole sull’equo processo e sull’assenza di rimedi giurisdizionali effettivi.