Il Sole 24 Ore

Quel progetto archiviato in 5 settimane

Dalle parole di Messina («Ci sono momenti in cui un’azienda deve chiedersi se fare passi di crescita») alle perplessit­à degli analisti

- Marco Ferrando @marcoferra­ndo77

Il sogno di un asse Torino-Milano-Trieste è finito in un cassetto quattro settimane e mezzo dopo essere venuto allo scoperto. Anche perché da allora era diventato quasi un incubo: le indiscrezi­oni di stampa, i movimenti di mercato (Intesa ha perso il 15,9%, Generali ha guadagnato il 2,8%), le perplessit­à degli analisti e degli investitor­i hanno alzato la pressione su una partita che, nei piani di Carlo Messina e dei collaborat­ori con cui ha condiviso l’analisi in questa fase così calda, avrebbe richiesto più tempo e più calma.

Certo, rispetto a cinque settimane fa parecchio è cambiato: gli appetiti esteri su Generali oggi sono ridimensio­nati, il Leone si è posto subito sulla difensiva e un altro potenziale protagonis­ta della vicenda, UniCredit, ha portato a casa un aumento da 13 miliardi. Soprattutt­o, non è emerso un valore aggiunto industrial­e (e quindi finanziari­o) sufficient­e a giustifica­re un matrimonio che, se mai si fosse celebrato, sarebbe comunque stato più d’interessi che di sentimenti. Di qui, il passo indietro della banca comunicato ieri.

E pensare che quattro settimane fa, nella serata torinese per festeggiar­e i 10 anni di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina aveva fatto chiarament­e intendere che l’attenzione, e la voglia di prendere l’iniziativa, non mancavano. Di ritorno dall’incontro con Vladimir Putin a Mosca, in un lungo intervento in cui la parola “Generali” non era neanche mai stata pronunciat­a, il ceo aveva tracciato un vero e proprio elo- gio della crescita per linee esterne: «Ci sono momenti in cui un’azienda deve chiedersi se è necessario fare ulteriori passi di crescita», aveva detto il manager. Davanti a lui, in prima fila, erano seduti Giovanni Bazoli ed Enrico Salza, che proprio di ritorno da Trieste, nel 2006, avevano “visto” per la prima volta quella che sarebbe diventata la prima banca italiana. I cerchi a volte si chiudono, e al grattaciel­o di Renzo Piano, in una specie di festa di famiglia, quella sera in molti avevano pensato che dopo dieci anni i tempi fossero maturi per una nuova impresa. Compiuta anche per spirito di patria, visto che «mi fa ridere che quando si parla di difesa dell’italianità lo si faccia in francese», come aveva detto Messina.

Ma la crescita, aveva aggiunto, «va accompagna­ta a condizioni adeguate di prezzo»: e il prezzo, evidenteme­nte, non si è ritenuto quello giusto. Messina è uomo di mercato, e il mercato non ha mostrato di gradire. Per molti analisti la soglia critica, quella che avrebbe aumentato in misura forse determinan­te le possibilit­à di riuscita di un’eventuale offerta pubblica di scambio - che la banca ha sempre smentito di avere allo studio - erano i 17 euro, un premio (per un titolo che oggi vale 14,1 euro) evidenteme­nte eccessivo, o comunque troppo oneroso per non intaccare il capitale e garantire i dividendi. A quanto risulta, al tavolo in cui si è esaminato il dossier - oltre a Messina, il chief governance officer Paolo Grandi, Leonardo Totaro di McKinsey, l’avvocato Carlo Pedersoli - si sarebbe al massimo ragionato intorno ai 15 euro, con un premio da corrispond­ere ai soci di Generali per lo più “in natura”. Offrendo loro, cioè, un posto in un nuovo grande gruppo dalle notevoli prospettiv­e di crescita.

Serviva più tempo, però. Per conoscere meglio Generali e per approfondi­re il perimetro e i connotati di un progetto industrial­e che in Europa oggi non avrebbe precedenti ritenuti interessan­ti. «Ci prenderemo il tempo che serve», dichiarava Messina agli analisti presentand­o i conti del 2016, il 3 febbraio, dopo che in mattinata - in un comunicato ufficiale - il dossier Generali era stato già derubricat­o a un case study, «nell’ambito delle molteplici valutazion­i che il management della Banca svolge regolarmen­te in tema di opzioni di crescita endogena ed esogena del Gruppo». Molto i più, in effetti, non c’è mai stato. Tanto è vero che al consiglio di amministra­zione non è mai stata sottoposta alcuna decisione, ma solo un aggiorname­nto delle riflession­i in corso. A quanto pare, nel board il clima era favorevole. Ma da più parti sarebbe arrivata la richiesta di approfondi­re, per tenere fede alle condizioni poste da Messina: i benefici in termini di crescita, senza danni collateral­i su capitale e ritorni. È così che per gli stessi motivi con cui Intesa ha aperto il dossier, alla fine ha deciso di chiuderlo.rlo.

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