Sanzioni più veloci e certe per gli statali assenteisti
I vizi formali non basteranno a evitarle, procedimenti disciplinari entro 60 giorni
Addio alle battaglie di carta bollata e alle contestazioni sul calendario delle notifiche o sui passaggi procedurali: per difendersi dalle sanzioni disciplinari, licenziamenti compresi, bisognerà parlare del merito.
Questo, almeno, è l’obiettivo ambizioso del nuovo codice disciplinare dei dipendenti pubblici scritto nel decreto legislativo della riforma Madia che giovedì ha ottenuto il primo via libera in consiglio dei ministri. Questa mossa, che si affianca all’accelerazione sui tempi delle procedure e al rafforzamento delle responsabilità dei dirigenti, è stata finora la meno fortunata sul piano mediatico, ma potrebbe rivelarsi la più efficace all’atto pratico. Vediamo perché.
Spinta anche dalla continua pressione della cronaca, che anche ieri ha regalato un maxi-caso di assenteismo in Campania (si veda la fotonotizia qui a fianco), la riforma torna sul codice disciplinare dei dipendenti pubblici, tema che ovviamente va molto oltre ai casi dei timbratori di cartellino più presenti al mercato che in ufficio. In fatto di licenziamenti, il codice riscritto dal decreto riprende le vecchie cause possibili, dalle assenze ingiustificate alle «gravi condotte aggressive», dalle false dichiarazioni alle condanne penali definitive con i nterdizione dai pubblici uffici fino alle violazioni gravi e reiterate del codice di comportamento, e ne aggiunge tre: il rendimento negativo per tre anni, con una norma che in realtà aggiusta e riprende una regola già prevista e quasi mai applicata, la violazione di obblighi che abbia portato alla sospensione per più di un anno in un biennio e, soprattutto, il mancato esercizio dell’azione disciplinare da parte del funzionario che ha il dovere di avviarla.
Quest’ultimo punto rende generale un principio già anticipato, per i soli casi degli assenteisti colti in flagrante, dal decreto dell’anno scorso sulle false timbrature. Il dirigente che deve vigilare e far partire l’azione disciplinare, ma non lo fa, rischia la stessa sanzione del dipendente infedele.
Sempre dal decreto sulle false timbrature viene ripreso ed esteso il calendario accelerato per arrivare alla sanzione. La procedura sprint, con la sospensione in 48 ore e l’uscita definitiva in 30 giorni, viene estesa a tutti i casi in cui il dipendente pubblico viene colto in flagrante a mettere in pratica il comportamento che può portare al licenziamento. Chi viene intercettato a chiedere una tangente per rilasciare un permesso, giusto per fare un esempio brutale, rientra in questa casistica. Anche le procedure ordinarie, senza flagranza, sono però chiamate a un’accelerazione decisa, che nel testo esaminato dal consiglio dei ministri prevede l’arrivo al traguardo della sanzione in 60 giorni.
L’ampliamento dei casi e il taglio dei tempi, però, da soli conterebbero poco, e anzi rischierebbero di rivelarsi controproducenti senza la terza mossa, quella che chiude il cerchio e prevede che procedimento e sanzione non possano essere fatti cadere da ostacoli procedurali o dal mancato rispetto dei tempi. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di garantire il successo delle tecniche di difesa che puntano sulla dilazione e non sulle risposte nel merito. I ritardi nell’iter, quindi, saranno pagati dai responsabili, ma non favoriranno gli “imputati”: a meno che gli inciampi della procedura non compromettano «irrimediabilmente» i diritti di difesa del dipendente, con una previsione inevitabile per evitare rischi di costituzionalità che andrà però declinata in modo concreto in tribunale.
In quest’ottica rientrano anche i primi ritocchi all’articolo 18, che mantengono la “tutela reale” del reintegro ma fissano un tetto di 24 mensilità agli indennizzi. Non solo: in caso di reintegro l’amministrazione potrà tentare una prova d’appello, riattivando la procedura disciplinare entro 60 giorni dalla sentenza definitiva.