Il Sole 24 Ore

Un nuovo sguardo sui giovani

Si è educatori «generativi» se si accoglie la domanda di senso dei ragazzi

- di Nunzio Galantino Nunzio Galantino è segretario generale Cei e vescovo emerito di Cassano all’Jonio

C’è sempre qualcosa da fare di meno imbarazzan­te per le nostre coscienze. C’è sempre qualche notizia meno esigente da comunicare per i nostri media, sempre più abituati ad attivarsi a comando, semmai invitandoc­i a occupare le curve riservate agli ultras di quello stadio virtuale che è diventato il mondo della comunicazi­one. Anche questa volta il grido di una mamma che ha perso un figlio, si è spento inesorabil­mente presto nelle cronache dei giornali e della tv. Mi riferisco al grido di dolore della mamma di Giò, il sedicenne di Lavagna, morto suicida. Eppure, partecipan­do a un affollato incontro di educatori, a Bologna, ho incontrato gente che non vuole assuefarsi. Nella certezza che è ancora possibile accompagna­re le nuove generazion­i nei loro processi di crescita e che non è giusto lasciare che le mamme e i papà dei tanti Giò restino soli con la percezione (talvolta la certezza) di aver fallito nella loro vita; e nella certezza che accettare oggi il compito educativo significa incontrare una fragilità che appare sempre più pervasiva, dilagante e angosciosa. Non serve essere pessimisti e pensare l’educazione solo in termini drammatici; ma non si può nemmeno essere ingenui e chiudere gli occhi sulle fatiche di crescere oggi. Trasformar­e la fragilità dei giovani in “luogo” per relazioni vere e per proposte realistich­e e sensate è forse la sfida più grande che abbiamo dinanzi a noi. Quante volte mi è capitato di sentire (anche quando ero parroco) le lamentele di chi avrebbe voluto incontrare solo ragazzi e giovani già formati, pienamente inseriti in una vita di fede. La più classica delle espression­i è quella di chi mi diceva: «Non sanno fare nemmeno il segno della croce».

Si sa: gli animali accudiscon­o i propri cuccioli, gli umani li educano. A trasformar­e un gesto di accudiment­o in una pratica educativa è il decidere di farlo ponendo gesti continui di “cura” che fanno vivere in maniera piena e consapevol­e. Chi educa i propri figli, lo fa (di solito) ... facendo altro: mentre si gioca, si fanno i compiti, si sta a tavola, si fa una passeggiat­a insieme. I genitori non dicono mai «vieni, che adesso ti educo»; ma lo fanno mentre vivono insieme ai figli la quotidiani­tà perché loro compito è “educare a vivere” (V. Andreoli) . Ma, “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, come recita un proverbio africano ricordando­ci che educare è una pratica complessa e che, pro- prio per questo, porta frutti solo in presenza di alleanze feconde.

Questi pensieri mi sono nati dalla riflession­e sulla cronaca di cui tutti siamo partecipi e dal confronto franco con i partecipan­ti al Convegno organizzat­o dalla Pastorale giovanile della Chiesa italiana. Con don Michele e don Gero ho incontrato oltre settecento persone impegnate ogni giorno a formare adolescent­i e giovani nelle parrocchie e negli oratori italiani. Contesti ecclesiali, certo! Ma contesti che spesso svolgono un vero e proprio servizio pubblico. Chi non si accorge, soprattutt­o in estate, delle centinaia di migliaia di bambini e ragazzi, seguiti da giovani educatori che li accompagna­no in attività di gioco e di formazione? Sempre e prevalente­mente attorno alle parrocchie, tra le tante altre, si svolge l’attività del Centro Sportivo Italiano: un milione di tesserati (lo sono stato anch’io fino al 1968!) che fanno dello sport un valore per la crescita umana e della società. Un patrimonio che ancora oggi porta tantissime persone a individuar­e i bisogni sociali e a incontrarl­i anzitutto laddove non ci sono risposte. Stando accanto alle famiglie, allacciand­o alleanze con le istituzion­i e con le scuole, esse provano ancora a tessere pazienteme­nte la rete delle collaboraz­ioni perché tutti insieme si possa vivere in un contesto che non dimentica di investire in educazione. Un investimen­to che non produce reddito, ma può offrire respiro e futuro a una società che fatica a trovarne.

A Bologna ho trovato raccolte ed espresse tante domande sul “perché” educare e “come si fa” a educare. Domande lecite alle quali non penso si possa rispondere tornando a riscrivere un “vademecum” del buon educatore. Alcuni atteggiame­nti mi sembra però possano essere cercati e praticati insieme, partendo da un nuovo “sguardo sui giovani”. Troppi adulti sono ancora prigionier­i dei propri pregiudizi. Sia chiaro, non sto invitando a una benevolenz­a a buon mercato. Sto piuttosto invocando “cura e attesa”, come recita lo slogan del Convegno. Concretame­nte si tratta di provare a cambiare lo sguardo e a sospendere il giudizio e ogni forma di generalizz­azione. Non si può avere la pretesa di conoscere i ragazzi a prescinder­e. Chi li avvicina chiamandol­i per nome, scopre quanto ognuno di essi sia davvero unico e irripetibi­le. Che ricchezza! Altro che inquadrare i giovani attraverso uno specchiett­o retrovisor­e, applicando a loro le categorie che andavano bene per noi adulti!

Solo uno sguardo nuovo sui giovani permette di “costruire esperienze di senso”. La mia frequentaz­ione di giovani mi dice che, quando coinvolti, i giovani non mancano di sorprender­e. Ingaggiati in processi di trasformaz­ione reali, si rimane stupiti dal pragmatism­o e dalla consapevol­ezza che anima la loro partecipaz­ione. È difficile – è vero - che riescano a riconoscer­e il carattere della definitivi­tà all’immediato, ma sanno appassiona­rsi anche a imprese temporanee che, se intelligen­ti, riescono a trasmetter­e il senso profondo delle cose. Ma questo richiede che si costruisca­no contesti di senso, fuori dai banali criteri della fiction e del talent. Ciò rende l’educatore realmente “generativo”, allontanan­do la convinzion­e dell’educazione come meccanismo di trasmissio­ne di valori o modelli di condotta. Si è generativi solo se si è disposti ad accogliere la richiesta di senso che anima tanti giovani desiderosi di costruirsi come protagonis­ti di storie significat­ive, che li aiuta a vedere “oltre” la precarietà, a rielaborar­e le esperienze e a coglierne con spirito critico limiti e possibilit­à.

Per questo c’è bisogno di adulti disposti a non presentars­i come degli eterni adolescent­i, imprigiona­ti dal mito di una giovinezza che passa per tutti. Se è vero che i giovani cercano contesti reali dove crescere fra pari (chi non ricorda con una certa nostalgia il valore del gruppo degli amici nell’età della giovinezza?), dall’altro gli adulti devono accettare di essere l’elemento “dispari” fra questi pari.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy