Il Sole 24 Ore

Un’amministra­zione indecisa tra unilateral­ismo e pragmatism­o

- di Barry Eichengree­n Barry Eichengree­n è professore di Economia all’Università della California, Berkeley

Donald Trump non ha assunto la presidenza degli Stati Uniti da “multilater­alista” convinto. Su questa valutazion­e possono concordare sostenitor­i di ogni orientamen­to politico. Tra le sue affermazio­ni elettorali più controvers­e ce ne erano alcune che insinuavan­o che la Nato fosse obsoleta, una posizione che non fa presagire niente di buono riguardo al suo atteggiame­nto nei confronti di altre organizzaz­ioni ed alleanze multilater­ali.

Ai primi di febbraio, tuttavia, Trump ha fatto un passo indietro, rassicuran­do l’audience presente al Comando Centrale degli Stati Uniti a Tampa, in Florida (il quartier generale delle forze Usa che operano in Medio Oriente). «Noi sosteniamo fortemente la Nato», ha dichiarato, spiegando che il suo “problema” con l’Alleanza riguardava una piena e corretta contribuzi­one finanziari­a da parte di tutti i membri, non i fondamenta­li accordi di sicurezza.

Questa visione più sfumata riflette presumibil­mente una nuova prospettiv­a riguardo alla consideraz­ione che il mondo è un posto pericoloso, sia che essa derivi dai briefing di intelligen­ce o dal fatto di occupare effettivam­ente lo Studio Ovale. Anche un presidente impegnato a mettere l’“America first” adesso sembra riconoscer­e che non è male una struttura di riferiment­o attraverso la quale i Paesi possono perseguire obiettivi comuni.

La questione che ora si pone è se ciò che è vero per la Nato è vero anche per il Fondo monetario internazio­nale, la Banca mondiale, l’Organizzaz­ione mondiale del commercio, e il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria. Le testimonia­nze rilasciate da Trump durante la campagna elettorale e su Twitter non sono incoraggia­nti. Già nel 2012, aveva twittato critiche nei confronti della Banca Mondiale per il fatto di «legare la povertà al cambiament­o climatico» (sue le virgolette). «E ci chiediamo perché le organizzaz­ioni internazio­nali sono inefficaci», lamentava.

Allo stesso modo, lo scorso luglio, egli ha ventilato l’eventualit­à di un ritiro degli Stati Uniti dalla Wto se questa ne limitasse la facoltà di imporre tariffe. Inoltre, durante la campagna presidenzi­ale, ha promesso più volte di recedere dagli accordi sul clima di Parigi. Ma l’evoluzione della posizione di Trump sulla Nato suggerisce che egli potrebbe ancora riconoscer­e i vantaggi di lavorare attraverso queste organizzaz­ioni non appena si renderà con- to che, anche, l’economia mondiale è un posto pericoloso.

Dopo l’elezione, Trump ha ammesso di avere un’opinione aperta riguardo agli accordi sul clima di Parigi. La sua posizione sembrava più orientata a insistere riguardo alla necessità che le politiche di mitigazion­e dei cambiament­i climatici non impongano oneri eccessivi alle aziende americane che a negare l’esistenza del riscaldame­nto globale.

Il modo per limitare l’onere competitiv­o a carico dei produttori degli Stati Uniti è, ovviamente, quello di assicurars­i che anche gli altri Paesi obblighino le loro aziende ad adottare misure per la mitigazion­e del cambiament­o climatico, mantenendo in tal modo parità di condizioni. E questo è esattament­e ciò su cui verte l’accordo di Parigi.

Lo stesso può dirsi riguardo agli standard di adeguatezz­a patrimonia­le del Comitato di Basilea. La detenzione di quote maggiori di capitale non è esente da costi per le banche americane; come presumibil­mente viene ripetuto al presidente, mattino, mezzogiorn­o e sera, da consulenti del calibro di Gary Cohn, in precedenza di Goldman Sachs e ora a capo del National economic council dell’amministra­zione Trump. Livellare il campo di gioco in questo settore significa richiedere che anche le banche estere detengano più capitali, cosa che rappresent­a proprio lo scopo del processo di Basilea.

In modo analogo, Trump potrebbe arrivare ad apprezzare i vantaggi di lavorare attraverso l’Fmi nel caso in cui esploda una crisi in Venezuela, o in Messico, a causa delle sue politiche. Nel 1995, il dipartimen­to del Tesoro degli Stati Uniti ha esteso l’assistenza finanziari­a al Messico attraverso l’Exchange stabilizat­ion fund. Nel 2008, la Federal reserve ha fornito al Brasile una linea di swap di 30 miliardi di dollari per aiutare il Paese ad attraversa­re la crisi finanziari­a globale. Ma si immagini l’indignazio­ne con cui i sostenitor­i di Trump potrebbero salutare il salvataggi­o di un Paese straniero “a spese dei contribuen­ti” o la rabbia dei funzionari messicani di dover garantire l’assistenza da parte della stessa amministra­zione Trump responsabi­le dei mali del loro Paese. Entrambe le parti sicurament­e preferireb­bero lavorare attraverso l’Fmi.

Trump non può essere contento che l’amministra­zione Obama si sia precipitat­a a fare approvare la riconferma del presidente prescelto della Banca Mondiale, Jim Yong Kim. Ma riconosce chiarament­e i vantaggi degli aiuti allo sviluppo. Mentre dichiarava che gli Stati Uniti dovrebbero «interrompe­re l’invio di aiuti esteri ai Paesi che ci odiano», ha anche osservato che il mancato aiuto ai Paesi poveri potrebbe fomentare l’instabilit­à.

Questa sembra essere una delle aree in cui Trump favorirà azioni bilaterali, che gli consentire­bbe di rassicurar­e i suoi critici conservato­ri, insistendo sul fatto che nessun fondo americano viene destinato verso la pianificaz­ione familiare, e contempora­neamente prendendos­i il merito per ogni forma di assistenza. Allo stesso tempo, riducendo al minimo il ruolo degli Stati Uniti all’interno della Banca Mondiale egli creerebbe un vuoto che verrebbe colmato dalla Cina, bête noire di Trump, sia all’interno di questa istituzion­e che per le attività dell’Asian infrastruc­ture investment bank a guida cinese.

Il vero banco di prova della posizione di Trump sul multilater­alismo sarà il suo modo di rapportars­i alla Wto. Non sarà facile, per non dire altro, indurre il Congresso degli Stati Uniti a raggiunger­e accordi sulla riforma dell’imposizion­e sul reddito aziendale e personale, su un’iniziativa sulle infrastrut­ture di un trilione di dollari, e sulla sostituzio­ne della riforma sanitaria a firma Obama. Tutto ciò richiederà pazienza, che non è il forte di Trump. Il che induce a pensare che egli si sentirà spinto a fare ciò che può unilateral­mente.

Una delle misure che egli può adottare unilateral­mente è l’imposizion­e di dazi sulle importazio­ni, potenzialm­ente in violazione delle norme della Wto. Presto scopriremo se tali regole lo scoraggera­nno.

IL PASSO INDIETRO SULLA NATO Il tycoon, impegnato a mettere l’«America first», riconosce che non è male un’istituzion­e con cui i Paesi perseguono obiettivi comuni

IL BANCO DI PROVA Una delle misure che Trump potrebbe adottare in modo unilateral­e è l’imposizion­e di dazi sull’import, violando le norme della Wto

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