Il consiglio sul voto è destinato a sparire?
+ Cosa c’è all’origine del fenomeno proxy advisor?
Quella dei proxy advisor è un’industria particolare. Nasce perché i gestori devono fare quasi per necessità outsourcing per fare scelte informate e corrette quando (e se) vanno a votare nelle assemblee delle società alle quali partecipano. Non sempre possono votare in tutte le assemblee, ma la loro presenza aumenta nel tempo perché considerare il voto come un’opzione concreta rappresenta anche un dovere verso i propri clienti. Le assemblee avvengono in un unico periodo dell’anno e questo spinge più all’outsourcing che a un’analisi e a un intervento diretto in ciascun emittente.
Quali problemi può creare una scelta di questo tipo?
Un primo problema è: sono i proxy
advisor in grado di elaborare delle decisioni di voto basate quanto meno sulla conoscenza dei documenti dei singoli emittenti o addirittura dei singoli paesi? In Europa, in particolare in Francia, si è posto il problema se i proxy avessero le risorse adeguate per lo scopo prefissato. I proxy infatti hanno lo stesso problema degli asset manager: ovvero dover conoscere la legislazione di tanti paesi anche molto diverse tra loro. In Italia si era posta in passato la questione del voto di lista, è una particolarità del nostro ordinamento. Gli investitori stranieri all’inizio votavano, in alcuni casi, “no” su tutte le liste perché non era chiaro questo meccanismo. Il problema si è verificato così spesso che i gestori hanno avvertito la necessità di chiedere indicazioni di voto sui vari punti delle assemblee a più proxy advisor.
E se danno indicazioni diverse?
Questo è un problema che effettivamente si può porre. Capita spesso che i pareri siano discordanti, come
q I problemi da affrontare? I consulenti, ad esempio, non possono conoscere le leggi di tutti i Paesi
hanno mostrato diversi studi condotti sul campo incluso il quaderno Consob sui proxy advisor del 2015. A questo punto il gestore deve capire quale seguire e deve impiegare per questo risorse interne. Questo pone una questione sulla utilità di rivolgersi a un soggetto esterno se poi occorre studiare comunque la questione. Inoltre il crescente engagement da parte dei fondi nelle società in cui si investe porta a una conoscenza diretta della società e rende parzialmente superata la necessità di un proxy advisor. Magari tra vent’anni potrebbero non esistere più dei proxy advisor.
Ma come si fa ad uscire da questa incertezza?
La direttiva Shareholder’s rights – ormai approvata – ha scelto di dare una regolamentazione ai proxy advisor mediante l’approccio del comply or explain. Ovvero in linea con quella del codice di autoregolamentazione che i proxy advisor si sono dati nel 2014. Un approccio che mi pare corretto: in un mercato oligopolistico, una regolamentazione pubblicistica dell’attività finirebbe per dare una legittimazione maggiore ai soggetti che vi operano. L’autodisciplina è un complemento importante alla disciplina fissata dalle norme. In fondo si tratta di un’industria basata sulla reputazione, se il proxy advisor sbaglia mette in pericolo la propria credibilità.
I proxy advisor ci riportano necessariamente alla questione della qualità della corporate governance per le imprese italiane. Cosa esce dai rapporti che la analizzano?
L’Italia è uno dei paesi in cui c’è una maggiore disponibilità di dati. Sia perché a richiederlo sono norme (come per le operazioni con le parti correlate), sia perché lo prevede l’autodisciplina. E ci sono molte analisi complementari di questi dati, da Assonime-Emittenti titoli, Comitato corporate governance e da Consob. Queste danno un quadro dell’andamento, ma non possono affermare con certezza se c’è una buona o cattiva governance nella singola società. Sarebbe importante che i Cda facessero un confronto interno su questi rapporti per vedere in che misura la società è in linea con le richieste del codice di autodisciplina. E sarebbe importante il ruolo degli amministratori indipendenti nell’utilizzare queste analisi per migliorare la go- vernance. Peraltro quest’anno il rapporto del Comitato per la corporate governance è stato molto più severo degli anni scorsi per arrivare a una maggiore compliance nei punti che sono meno rispettati. Uno stimolo in più a questo fine.
Di recente si è posto un problema relativamente alla stewardship dei fondi, superato quando dai principi applicativi del codice è stato semplificato il rapporto diretto tra amministratori di minoranza e azionisti che li hanno eletti.
Questo è un tema che riporta a una questione centrale, mai affrontata, della corporate governance, ovvero quella della circolazione delle informazioni nei gruppi societari. Ci sono i limiti posti dal regolamento Market abuse, che rendono difficile fornire informazioni privilegiate relative a società quotate, anche in favore delle controllanti, pur in assenza di trading da parte di queste ultime. Un altro punto delicato riguarda i limiti che il regolamento oppone al dialogo tra gli amministratori e gli azionisti che ne hanno permesso la nomina presentandoli come candidati nelle proprie liste, dato che gli amministratori sono comunque tenuti a fare l’interesse della società. Non aiuta la certezza del quadro normativo la mancanza, in Europa, di una nozione di gruppo condivisa.
Che si fa allora?
La nuova Market abuse, con una norma che apparentemente è molto lontana da queste questioni, quella sui market soundings (i sondaggi di mercato, ndr), mantenendo la confidenzialità e tutte una serie di precauzioni, consente di “sondare” il mercato. E quindi su alcuni punti anche la controllata può sondare la controllante.