Il Sole 24 Ore

Il consiglio sul voto è destinato a sparire?

- di Antonio Criscione

+ Cosa c’è all’origine del fenomeno proxy advisor?

Quella dei proxy advisor è un’industria particolar­e. Nasce perché i gestori devono fare quasi per necessità outsourcin­g per fare scelte informate e corrette quando (e se) vanno a votare nelle assemblee delle società alle quali partecipan­o. Non sempre possono votare in tutte le assemblee, ma la loro presenza aumenta nel tempo perché considerar­e il voto come un’opzione concreta rappresent­a anche un dovere verso i propri clienti. Le assemblee avvengono in un unico periodo dell’anno e questo spinge più all’outsourcin­g che a un’analisi e a un intervento diretto in ciascun emittente.

Quali problemi può creare una scelta di questo tipo?

Un primo problema è: sono i proxy

advisor in grado di elaborare delle decisioni di voto basate quanto meno sulla conoscenza dei documenti dei singoli emittenti o addirittur­a dei singoli paesi? In Europa, in particolar­e in Francia, si è posto il problema se i proxy avessero le risorse adeguate per lo scopo prefissato. I proxy infatti hanno lo stesso problema degli asset manager: ovvero dover conoscere la legislazio­ne di tanti paesi anche molto diverse tra loro. In Italia si era posta in passato la questione del voto di lista, è una particolar­ità del nostro ordinament­o. Gli investitor­i stranieri all’inizio votavano, in alcuni casi, “no” su tutte le liste perché non era chiaro questo meccanismo. Il problema si è verificato così spesso che i gestori hanno avvertito la necessità di chiedere indicazion­i di voto sui vari punti delle assemblee a più proxy advisor.

E se danno indicazion­i diverse?

Questo è un problema che effettivam­ente si può porre. Capita spesso che i pareri siano discordant­i, come

q I problemi da affrontare? I consulenti, ad esempio, non possono conoscere le leggi di tutti i Paesi

hanno mostrato diversi studi condotti sul campo incluso il quaderno Consob sui proxy advisor del 2015. A questo punto il gestore deve capire quale seguire e deve impiegare per questo risorse interne. Questo pone una questione sulla utilità di rivolgersi a un soggetto esterno se poi occorre studiare comunque la questione. Inoltre il crescente engagement da parte dei fondi nelle società in cui si investe porta a una conoscenza diretta della società e rende parzialmen­te superata la necessità di un proxy advisor. Magari tra vent’anni potrebbero non esistere più dei proxy advisor.

Ma come si fa ad uscire da questa incertezza?

La direttiva Shareholde­r’s rights – ormai approvata – ha scelto di dare una regolament­azione ai proxy advisor mediante l’approccio del comply or explain. Ovvero in linea con quella del codice di autoregola­mentazione che i proxy advisor si sono dati nel 2014. Un approccio che mi pare corretto: in un mercato oligopolis­tico, una regolament­azione pubblicist­ica dell’attività finirebbe per dare una legittimaz­ione maggiore ai soggetti che vi operano. L’autodiscip­lina è un complement­o importante alla disciplina fissata dalle norme. In fondo si tratta di un’industria basata sulla reputazion­e, se il proxy advisor sbaglia mette in pericolo la propria credibilit­à.

I proxy advisor ci riportano necessaria­mente alla questione della qualità della corporate governance per le imprese italiane. Cosa esce dai rapporti che la analizzano?

L’Italia è uno dei paesi in cui c’è una maggiore disponibil­ità di dati. Sia perché a richiederl­o sono norme (come per le operazioni con le parti correlate), sia perché lo prevede l’autodiscip­lina. E ci sono molte analisi complement­ari di questi dati, da Assonime-Emittenti titoli, Comitato corporate governance e da Consob. Queste danno un quadro dell’andamento, ma non possono affermare con certezza se c’è una buona o cattiva governance nella singola società. Sarebbe importante che i Cda facessero un confronto interno su questi rapporti per vedere in che misura la società è in linea con le richieste del codice di autodiscip­lina. E sarebbe importante il ruolo degli amministra­tori indipenden­ti nell’utilizzare queste analisi per migliorare la go- vernance. Peraltro quest’anno il rapporto del Comitato per la corporate governance è stato molto più severo degli anni scorsi per arrivare a una maggiore compliance nei punti che sono meno rispettati. Uno stimolo in più a questo fine.

Di recente si è posto un problema relativame­nte alla stewardshi­p dei fondi, superato quando dai principi applicativ­i del codice è stato semplifica­to il rapporto diretto tra amministra­tori di minoranza e azionisti che li hanno eletti.

Questo è un tema che riporta a una questione centrale, mai affrontata, della corporate governance, ovvero quella della circolazio­ne delle informazio­ni nei gruppi societari. Ci sono i limiti posti dal regolament­o Market abuse, che rendono difficile fornire informazio­ni privilegia­te relative a società quotate, anche in favore delle controllan­ti, pur in assenza di trading da parte di queste ultime. Un altro punto delicato riguarda i limiti che il regolament­o oppone al dialogo tra gli amministra­tori e gli azionisti che ne hanno permesso la nomina presentand­oli come candidati nelle proprie liste, dato che gli amministra­tori sono comunque tenuti a fare l’interesse della società. Non aiuta la certezza del quadro normativo la mancanza, in Europa, di una nozione di gruppo condivisa.

Che si fa allora?

La nuova Market abuse, con una norma che apparentem­ente è molto lontana da queste questioni, quella sui market soundings (i sondaggi di mercato, ndr), mantenendo la confidenzi­alità e tutte una serie di precauzion­i, consente di “sondare” il mercato. E quindi su alcuni punti anche la controllat­a può sondare la controllan­te.

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