Il Sole 24 Ore

Chi usa (e chi no) in Italia le società di prox y

Nelle aziende dell’Msci Usa l’ uso degli advisor in due anni è passato dall’1% al 41,2%

- Lucilla Incorvati @lucillainc­orvat

Al di là dell’oceano nelle aziende dell’Msci Usa l’utilizzo dei proxy in due anni (2015-2016) è passato da meno dell’1% al 41,2 per cento. Lo rivela uno studio realizzato da Msci ESGResearc­h, dal titolo Proxy Access – 2017 Engagement Focus, secondo il quale il ricorso ai proxy è stata una delle grandi storie di successo in termini di avanzament­o dei diritti degli azionisti. Ovviamente, l’aumento non è stato uniforme: quelle società cosiddette sha- reholder-friendly sono quelle che hanno mostrato una tendenza maggiore al ricorso ai proxy così come una maggiore apertura alla corporate governance. E in Italia quanto è diffuso ricorrere alle proxy firm?

Certamente non lo è spesso nelle piccole società per esempio dell’Aim Italia. Ma ci sono diversi esempi di aziende italiane come ad esempio quelle dello Star in cui, accanto al fondatore che ha la partecipaz­ione di maggioranz­a, la governance è proxy friendly. «Le proxy firm assomiglia­no molto alla società di rating – spiega Manfredi Vianini Tolomei, responsabi­le della practice capital markets dello studio legale Chiomenti – visto che in alcuni casi esprimono delle valutazion­i sulla corporate governance delle quotate e danno raccomanda- zioni di voto soprattutt­o nelle società che hanno un azionariat­o diffuso».

C’è qualcuno che critica le prassi, spesso troppo rigide, di dare indicazion­i di voto sulle delibere in alcuni casi molto in anticipo rispetto all’evoluzione della vita societaria. «Direi che negli ultimi sei/sette anni il loro ruolo è cresciuto progressiv­amente di pari passi alla spinta ad un maggior attivismo da parte degli investitor­i istituzion­ali – ricorda Susanna Stefani, fondatrice di Governance Consulting – . Oggi praticamen­te tutti quegli investitor­i istituzion­ali (asset manager, fondi pensione, banche, compagnie) che non sono blockholde­r, (ovvero chi non detiene almeno il 5% dell’equity, soglia che qualifica una partecipaz­ione rilevante nell’impresa) di solito si affida a un proxy. Pratica- mente tutti i fondi esteri lo fanno e vi ricorrono prevalente­mente per ragioni di costo perché è economicam­ente più convenient­e rispetto all’avere un proprio membro. Certo sarebbe opportuno, visto che intervengo­no su tematiche di primo piano e nell’indirizzo di voto, che anche in Europa il loro operato fosse sottoposto a una normativa stringente come quella della Sec statuniten­se».

Giovanni Tamburi, fondatore di Tip, società molto presente come investitor­e in tante società quotate (Prysmian, Amplifon, Interpump, Digital Magics, Ferrari, Monclear e altre), afferma: «Vent’anni fa con altre persone sono stato tra i fondatori di Proxy Italia – spiega il manager – quindi quella dei proxy ritengo sia una via per portare un pochino di democrazia nel mondo delle società quotate. E a prescinder­e dalla crescita sul mercato alla quale stiamo assistendo negli ultimi anni, credo nel loro ruolo da tempi non sospetti. Oggi si va in quella direzione, anche se è bene non eccedere in certi formalismi e soprattutt­o nel rispetto dei diversi ruoli». Tuttavia, Tamburi e il suo team preferisco­no sedere direttamen­te nei Cda, informarsi e prendere decisioni di voto in prima persona. «Di rado abbiamo fatto ricorso a proxy firm – conclude il manager –. Lo abbiamo fatto in occasioni particolar­i come nel caso dell’Opa Bolzoni e in quella più recente di Dedalus perché volevamo fare delle verifiche sugli investitor­i».

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