Varsavia contro le «due velocità»
Alla fine firmerà anche la Polonia. Dopo le polemiche, le accuse e le parole grosse, sulla Dichiarazione di Roma ci sarà anche la firma di Beata Szydlo, la premier polacca. Non quella di Jaroslaw Kaczynski, il grande capo della destra populista e nazionalista che da quando ha (ri)preso il potere a Varsavia nel 2015 ha (ri)cominciato a litigare con i Paesi europei occidentali e con le istituzioni dell’Unione: sui migranti, sui diritti civili, sul controllo dei media, sull’indipendenza della Corte Costituzionale, sulla visione stessa dell’Europa. Kaczynski «venderà» ai polacchi la sua battaglia per non perdere consensi ma darà l’ordine di firmare, non potrà fare diversamente: l’alternativa sarebbe un completo isolamento, la mancanza di alleati sulla scena mondiale, considerata l’imprevedibilità dell’America di Trump e l’ostilità mai superata con la vicina Russia. Solo due settimane fa, quando il polacco Donald Tusk è stato rieletto alla presidenza del Consiglio europeo, anche i sodali del Gruppo di Visegrad - Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria - si sono dissociati dallo scontro personale di Kaczynski contro Tusk.
Il leader sovranista sarà dunque costretto ad accettare una Dichiarazione che dovrebbe fare riferimento alla «doppia velocità» all’interno della Ue: in questi giorni si è lavorato a una bozza nella quale i Paesi membri affermano di agire «insieme ogni qualvolta possibile, a diversi ritmi e intensità laddove necessario», pur ribadendo che «l’Unione è indivisa e indivisibile». Ieri sia la premier Szydlo, sia il presidente Andrzej Duda - entrambi esponenti di Diritto e Giustizia e fedelissimi di Kaczynski - hanno rassicurato i partner comunitari: «Vogliamo un’Unione di Stati nazione liberi e sullo stesso piano», ha attaccato Duda ribadendo però il pieno impegno della Polonia dentro l’Europa.
Kaczynski continuerà a scagliarsi contro i «club esclusivi», contro «un’Europa a due velocità che vorrebbe spingere la Polonia fuori dall’Unione o trasformarla in un Paese membro di categoria inferiore». L’Europa dovrà ancora una volta assorbire gli strascichi delle polemiche di un Paese che vuole cambiare l’Unione ma non può rinunciare ai fondi europei: in tutto quasi 100 miliardi di euro tra il 2014 e il 2020. E per questo darà fastidio ma a Roma finirà per firmare.