Il Sole 24 Ore

Il futuro è l’Unione federale

- Di Sergio Fabbrini

Roma è stata ieri la capitale dell’Europa. Al Campidogli­o, dove furono firmati il 25 marzo 1957 i Trattati che hanno dato vita all’Unione Europea, è stata solennemen­te sottoscrit­ta una Dichiarazi­one che riafferma l’importanza dell’integrazio­ne europea. È difficile non sentirsi grati alla generazion­e post-bellica di leader politici che decisero di avviare il processo di integrazio­ne come risposta alle rivalità storiche tra Stati nazionali europei. La Dichiarazi­one sottoscrit­ta celebra giustament­e la rilevanza storica dei risultati raggiunti: «Abbiamo costruito una comunità di pace, libertà, democrazia, diritti umani e governo della legge, un potere economico senza precedenti e un livello impareggia­bile di protezione sociale e welfare». Queste cose non sono scese dal cielo, ma sono il risultato di scelte politiche. Disconosce­rle, come fanno gli estremisti del nazionalis­mo che anche ieri hanno manifestat­o contro l’Ue, è da irresponsa­bili. Oppure da ignoranti. Caratteris­tiche che spesso si rafforzano a vicenda.

Le scelte dei leader post-bellici, infatti, avrebbero potuto essere diverse. Pur all’interno dell’ombrello della Nato, essi avrebbero potuto limitarsi a una cooperazio­ne inter-statale di natura sempliceme­nte diplomatic­a, come avviene, ad esempio, nel Consiglio d’Europa. Un’organizzaz­ione internazio­nale, quest’ultima, istituita nel 1949 con il Trattato di Londra, costituita oggi di 47 Paesi europei, il cui scopo è formalment­e quello di promuovere la democrazia e i diritti umani. Senza sottovalut­arne l’importanza simbolica, a nessuno verrebbe oggi in mente di sostenere che è stato grazie a questa organizzaz­ione internazio­nale che gli europei hanno imparato a non farsi la guerra o a difendere lo stato di diritto.

Ipadri fondatori dell’Ue presero i nvece un’altra strada. Decisero di costruire un sistema di istituzion­i sovra-statali e inter-statali al cui interno integrare gli Stati membri. Scelsero cioè di istituzion­alizzare la cooperazio­ne tra gli Stati dell’Ue attraverso la nascita di istituzion­i indipenden­ti dagli Stati stessi. Un sistema istituzion­ale che doveva essere dotato di una sua autonomia costituzio­nale dagli Stati che l’avevano costituito.

Se è vero quello che disse il politico (due volte primo ministro) francese Robert Schuman nel 1950, cioè che l’Europa non si farà tutta in una volta, è anche vero che i padri fondatori dell’Ue ritenevano che l’Europa non si sarebbe mai fatta senza un adeguato assetto istituzion­ale che la facesse maturare. Tuttavia questo approccio federale, in particolar­e dopo il voto contrario nel 1954 dell’Assemblea nazionale francese al progetto di Comunità europea della difesa, fu ben presto abbandonat­o. Con i Trattati di Roma si affermò, per necessità, l’idea di una integrazio­ne funzionale. Cioè basata su questa sequenza: identifica­zione di un problema comune, ricerca di una soluzione comune e quindi individuaz­ione delle istituzion­i necessarie per risolvere il problema comune. Come si vede, qui non c’è la politica, come ce n’era nell’approccio federale. Se nell’approccio federale si partiva dalle istituzion­i per creare l’unione, nell’approccio funzionale si considera quest’ultima come l’esito della soluzione di problemi concreti di politica pubblica. L’approccio funzionale, però, ha finito per mostrare i suoi limiti. I problemi di politica pubblica si possono risolvere quando vi è un consenso di fondo tra gli Stati sul metodo per affrontarl­i e sulle conseguenz­e di quel metodo. Ma quel consenso a un certo punto è sparito. Perché, con i continui allargamen­ti, è aumentata la disomogene­ità delle prospettiv­e sull’integrazio­ne tra gli Stati che fanno parte dell’Ue. E perché, con l’entrata nell’agenda europea di politiche fortemente distributi­ve (si pensi alla politica migratoria o alla politica di bilancio), ogni Stato ha cercato di tirare la coperta dalla propria parte, mettendo in discussion­e il progetto comune. Con il risultato che le crisi hanno messo in ginocchio l’Ue, fino al punto di minacciarn­e la disintegra­zione (come è avvenuto con la Brexit dell’anno scorso).

La Dichiarazi­one di Roma, resa pubblica ieri, è l’esempio di queste divisioni. Sotto la minaccia della Polonia (sostenuta dagli altri Paesi dell’Est) di non firmarla, la Dichiarazi­one afferma che gli Stati «agiranno insieme, a passi e intensità diversi quando necessario, mentre si stanno muovendo nella stessa direzione». Questa formulazio­ne è ancora più ambigua di quella dell’Europa a più velocità suggerita da Angela Merkel poco più di un mese fa. Infatti è evidente che la realtà è fatta di Stati che perseguono direzioni diverse. I mporre nella Dichiarazi­one quella formula, però, aiuta non poco gli oppositori dell’integrazio­ne politica (il Regno Unito ieri, la Polonia oggi), perché fornisce loro un potere di veto sulle scelte degli altri. Quegli oppo- sitori vogliono (legittimam­ente) preservare le loro sovranità nazionale, ma allo stesso tempo vogliono (illegittim­amente) ostacolare la ridefinizi­one di quelle sovranità da parte di altri Paesi. Londra ha insegnato la lezione e Varsavia l’ha imparata a memoria (e con essa gran parte dei Paesi dell’Est europeo e della penisola scandinava). Probabilme­nte non c’era un’alternativ­a a quella formulazio­ne. Aver portato tutti i 27 leader degli Stati membri a firmare la Dichiarazi­one di Roma, è sicurament­e un successo del governo italiano. Dopo tutto, il fiato dell’Europa è sospeso in attesa di vedere chi salirà al Palais de l’Élysée e chi siederà nella B un deskanz le ramtsgebäu de nei prossimi mesi.

Tuttavia, anche con la vittoria di Macron in Francia e con l’affermazio­ne di un cancellier­e europeista in Germania, le divisioni interne all’Ue non spariranno. E soprattutt­o non sparirà l’inadeguate­zza delle sue istituzion­i rispetto alle sfide da affrontare. Il funzionali­smo silenzioso ci ha consentito di andare avanti per molti anni, ma le crisi dell’ultimo decennio hanno mostrato la sua insufficie­nza. Quelle crisi hanno portato forze politiche e movimenti di opinione a mettere in discussion­e il progetto stesso di integrazio­ne. Di fronte a questa sfida, occorre adottare un approccio politico, non già funzionale. Occorre dare una giustifica­zione politica del progetto di Unione, affrontand­o a viso aperto chilo contesta. Sono finiti i tempi dell’ integrazio­ne“bystealth ”,

LE INCOGNITE Anche con la vittoria di Macron in Francia e di un cancellier­e europeista in Germania le divisioni resteranno

cioè nascosta e invisibile. Se l’integrazio­ne europea costituisc­e la principale divisione nei sistemi politici nazionali, allora i leader europeisti debbono farne la loro bandiera, liberandos­i dalla tirannia dei sondaggi di opinione.

Ma quale bandiera? La bandiera di un’unione federale che gestisca le basilari politiche di interesse comune, lasciando agli Stati membri tutto il resto. La stessa Dichiarazi­one di Roma si conclude elencando le aree di policy su cui è necessario costruire un’unione più stretta nel prossimo decennio. A ben vedere si tratta di aree che sono proprie di un’unione, come l’area della sicurezza anche esterna, della stabilità monetaria inclusiva anche del welfare e della coesione sociale, a cui andrebbe aggiunta l’area dello sviluppo. Tuttavia, l’alta politicità di queste aree implica una ridefinizi­one delle istituzion­i che dovrebbero regolarne l’efficienza e garantirne la legittimit­à. Non si possono prendere decisioni in questi ambiti, senza che i cittadini abbiano una voce in capitolo. Siamo ritornati così alle istituzion­i in quanto condizione della federalizz­azione, come pensavano De Gasperi, Adenauer e Schuman. Se utilizziam­o la Dichiarazi­one di Roma per fare un salto politico in avanti, allora occorrerà avere una strategia per neutralizz­are il potere di veto di chi si oppone. Per questo motivo, occorre rafforzare ed estendere il mercato unico, rendendo però possibile che al suo interno emerga un nucleo di Paesi impegnato a dare vita a un’unione federale. Per fare ciò ci vuole un preliminar­e atto politico che impegni quei Paesi, come fu un atto politico la Conferenza interminis­teriale di Messina del 1955 che aprì la porta ai Trattati di Roma che abbiamo ieri celebrato.

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