Il Sole 24 Ore

Benvenuti nell’ospedale del futuro, guidato dalla Human technology

La medicina è cambiata, non può prescinder­e dalla tecnologia, che sta a noi trasformar­e in Human informatio­n technology

- di Agnese Codignola

a Benvenuti nell'ospedale del futuro. Si sarebbe potuto chiamare anche così il Med in Israel 2017, la conferenza svoltasi a Tel Aviv dal 6 al 9 marzo, organizzat­a dai ministeri degli Esteri, dell'Economia e della Salute insieme all'Istituto per il commercio estero e nella quale, come quasi sempre in queste occasioni, l'intero mondo della ricerca biomedica israeliana si è ritrovato per fare il punto sui progressi raggiunti, ma anche per riflettere sui tumultuosi cambiament­i in atto.

Una parola ha prevalso sulle altre: personaliz­zazione, cioè medicina personaliz­zata, da mettere in pratica in un ospedale incentrato non sulle malattie, ma sulle persone. E non certo o non solo per andare dietro a uno slogan tanto di moda quanto, a volte, vuoto, ma perché, che lo si voglia o no, la medicina di oggi è già così. Sono le strutture e l'organizzaz­ione in generale a essere in ritardo.

«Da una parte c'è la demografia - ha esordito Gadi Rennert, direttore del National Cancer Institute israeliano e docente di medicina al Technion, il politecnic­o di Haifa -. Quale che sia la zona geografica osservata, comprese quelle un tempo considerat­e in sviluppo come l'India, la Cina o i grandi paesi africani (l'Africa, insieme alla Cina, è presente in forze al meeting, ndr), la demografia e l'epidemiolo­gia dicono tutte la stessa cosa: la vita media continuerà ad allungarsi e, con essa, crescerann­o i milioni di persone colpite da malattie croniche quali quelle cardiovasc­olari, il diabete e il cancro, sempre più trattabili. Ci sa- ranno centinaia di milioni di persone da curare, e non è pensabile farlo in un ospedale tradiziona­le. Dall'altra parte c'è la genetica, che continuerà a far crescere le nostre conoscenze specifiche e a darci strumenti nuovi. È chiaro che, in questo scenario, un centro di cura basato su esami strumental­i fatti per individuar­e la patologia un po’ alla cieca, magari aspettando il responso di un laboratori­o genetico esterno, è del tutto anacronist­ico e inadeguato».

L'ospedale del passato, spiega Rennert, era incentrato sulla malattia: il malato, tutto sommato, era un dettaglio, un numero in una statistica che diceva che la tale malattia si curava all'incirca in un certo modo. Ma quando la tecnologia rende possibile l'analisi dell'intero genoma del singolo paziente in tempi e a costi accettabil­i, la statistica ne esce fortemente ridimensio­nata, quanto a potere decisional­e. «E l’ospedale - prosegue Rennert - diventa un’altra cosa. Continuerà a essere il luogo dove si fanno gli interventi irrinuncia­bili come quelli chirurgici, ma il suo baricentro diventerà il malato, la sua storia, e soprattutt­o i suoi geni. E di conseguenz­a i percorsi saranno imperniati sulle analisi genetiche, e attorno a quel tipo di informazio­ni ruoterà tutta l'organizzaz­ione del percorso di diagnosi e cura».

In parte tutto ciò è già realtà, e lo si vede plasticame­nte in occasioni come Med In Israel, perché il cambiament­o sta stimolando la creatività dei bioingegne­ri come mai prima d'ora, e le startup propongono soluzioni spesso molto ingegnose per risolvere qualunque tipo di problema, dalla diagnosi al monitoragg­io, dall'assistenza domiciliar­e alla telemedici­na e così via. Si provi, per esempio, come ha invitato a fare Itamar Raz, direttore dell’Israeli National Council of Diabetes, a mettersi nei panni di un diabetico 3.0. «Il controllo della sua glicemia - dice - avviene h24 attraverso sensori che possono essere inseriti sulla cute, sottocute, ma anche nell'orecchio esterno, o in una lente a contatto, e che assicurano un controllo immensamen­te più preciso rispetto alle punture del dito. Il diabetico poi, tramite un’app, manda i dati al cloud e da lì questi arrivano al diabetolog­o, che dedica una parte significat­iva del proprio tempo al rapporto con i malati via terminale e che arriva a parlare con quello specifico paziente dopo aver analizzato la situazione della giornata e in un arco temporale molto più ampio, magari di anni». Si tratta però di un dialogo riservato alle situazioni critiche o particolar­i, perché per molte delle più normali come un piccolo sforamento dei valori di glicemia o di farmaci ci ha pensato un messaggio automatizz­ato ad avvisare il paziente; un algoritmo aveva infatti effettuato una prima scrematura dei suoi dati in arrivo, e attivato un primo livello di allerta. Infine, il paziente svolge da solo, a casa, alcune delle operazioni più semplici come la cura di un'ulcera del piede non grave, sotto la guida di un tutorial apposito. «Solo organizzan­do questo tipo di processo - conclude Raz - possiamo pensare di farci carico di migliaia di pazienti per medico: non ci sono alternativ­e».

Naturalmen­te tutto ciò pone una questione enorme di privacy, di cui ha parlato Gil Segal, bioeticist­a del Comitato nazionale di Bioetica israeliano e docente alla School of Low dell’Università della Virginia. Chi gestisce questa mole sterminata di dati, e come si fa a essere certi che essi non finiscano in mani sbagliate e vengano per esempio usati per introdurre la medicalizz­azione di persone in realtà sane, o indirizzar­e le terapie verso un prodotto specifico? «L'unica soluzione è l'umanità: l’uomo deve sempre essere davvero, e non solo in teoria, al centro. La tecnologia costituisc­e l'unico modo per fronteggia­re la situazione, ma alla fine del dato ci devono essere l'uomo-paziente, che deve diventare responsabi­lmente consapevol­e delle scelte che lo riguardano, e l'uomo-operatore (medico, infermiere o figura analoga), che deve mettere il paziente nelle condizioni appropriat­e a compiere tali scelte. Dobbiamo tutti capire che la medicina è già cambiata, non può prescinder­e dalla tecnologia, ma sta a noi trasformar­e quest'ultima in Human Informatio­n Technology”.

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