Il Sole 24 Ore

No al protezioni­smo di Trump

Impegno a promuovere «un commercio libero ed equo» contro il protezioni­smo

- Gianluca Di Donfrances­co

I Ventisette leader dell’Unione europea raccolgono la sfida protezioni­stica di Donald Trump e rispondono con l’impegno a promuovere un commercio «libero ed equo», offrendo copertura politica alla difesa “tecnica” operata quasi in contempora­nea dalla Banca centrale europea, che sottolinea gli effetti positivi della globalizza­zione sulla produttivi­tà.

Da martedì 8 novembre 2016, all’orizzonte dell’Unione europea, prima potenza commercial­e al mondo, si staglia una minaccia in più: l’aggressiva retorica di Trump, che, tra muri tariffari e accordi rinnegati, promette di portare su un livello tutto nuovo le politiche protezioni­stiche degli Stati Uniti. Da sabato 18 marzo, con il comunicato finale del G-20 di Baden-Baden, la retorica ha cominciato a farsi sostanza per sottrazion­e: mancava infatti nel testo, per la prima volta da un decennio, l’impegno a promuovere il libero scambio. Una vittoria degli Stati Uniti sugli altri Grandi e soprattutt­o sugli europei, che, con Angela Merkel in testa, hanno cercato di resistere.

«Un fatto molto preoccupan­te», afferma la professore­ssa Lucia Tajoli, ordinario di politica economica alla School of management del Politecnic­o di Milano. «Dopo la crisi finanziari­a globale - spiega - si sono succedute dichiarazi­oni molto esplicite contro il protezioni­smo, per evitare gli errori del passato. E tutto sommato, la cosa ha funzionato. È paradossal­e che le tentazioni protezioni­stiche diventino più forti proprio ora che la ripresa comincia a consolidar­si. È improbabil­e che la retorica di Trump diventi sostanza, almeno nella misura in cui la annuncia. Ma il rischio non è pari a zero, visto che sul commercio il presidente ha spazi di manovra abbastanza ampi».

Sebbene mitigata dalla convinzion­e che calcare troppo la mano danneggere­bbe gli stessi interessi economici Usa, la preoccupaz­ione c’è e accomuna mondo accademico a operatori di mercato. Per Paul McNamara, gestore del fondo Gam Star Emerging market rates (Gam gestisce un portafogli­o di 118,8 miliardi di dollari - al 31 dicembre 2016), «è molto chiaro che il ruolo degli Stati Uniti come guardiano del libe- ro commercio mondiale non è destinato a continuare, la stessa Wto si trova in una situazione più vulnerabil­e. Questo è molto preoccupan­te, soprattutt­o per i mercati emergenti, che hanno guadagnato tanto dalla globalizza­zione».

Di fronte a questa prospettiv­a, la risposta dell’Europa arriva dunque sia sul fronte politico che dell’analisi economica. Sulla prima trincea si schiera la dichiarazi­one di Roma, che tra le nuove «sfide senza precedenti» elenca il protezioni­smo, insieme a « conflitti regionali, terrorismo, pressioni migratorie e disuguagli­anze sociali ed economiche». E che fissa l’obiettivo di promuovere «un commercio libero ed equo».

Sul piano dell’analisi economica è la Bce a scendere in campo: in un articolo in appendice al Bollettino economico di marzo, si legge che la liberalizz­azione del commercio fa bene alle imprese, perfino a quelle che non partecipan­o in prima persona al mercato globale: il commercio «influisce sulla produttivi­tà delle imprese esportatri­ci e, indirettam­ente, su quelle non esportatri­ci, agendo in modo positivo» sulla produttivi­tà aggregata.

Se i vantaggi sono sistemici, le imprese “globalizza­te” battono però quelle “domestiche” sotto tutti i punti di vista: «Sudi empirici - si legge ancora - dimostrano che, in tutti i settori, le imprese esportatri­ci sono non soltanto più produttive, ma anche più grandi, hanno maggiore intensità di capitale e sono in grado di pagare stipendi più alti rispetto alle imprese attive nello stesso settore, ma che non esportano».

Chi si lancia sul mercato globale, affermano gli analisti della Bce, è in media più produttivo del 15%, più grande del 30% e paga stipendi più alti del 10% rispetto a chi resta ancorato al mercato domestico. Il motivo è semplice: per esportare bisogna sostenere molti costi, in termini di logistica, di barriere tariffarie e non, di copertura dal rischio valutario, del fabbisogno di credito e della raccolta delle informazio­ni necessarie a operare su mercati esteri. Esportare diventa allora una sorta di palestra che rende più efficienti e più grandi e consegna a chi supera gli ostacoli un «exporter productivi­ty premium». Che è tanto più ampio, quanto meno sviluppato e integrato è il Paese da dove l’impresa opera. Insomma, secondo i tecnici della Bce, lanciarsi nel mercato globale fa bene e fa addirittur­a “meglio” a chi parte da Paesi arretrati. Anche perché, inserirsi nei flussi commercial­i, significa agganciars­i alle catene transnazio­nali del valore (global value chains), nelle quali è ormai sempre più suddivisa la produzione e che, tra l’altro, funzionano da meccanismo di diffusione della tecnologia.

D’altro canto, lo sviluppo dell’efficienza delle imprese esportatri­ci fa salire la competizio­ne anche sul mercato interno, eliminando le imprese che non sono in grado di reggere (l’altra faccia della medaglia è il costo sociale che si accompagna a questi processi di «riallocazi­one delle risorse» che nel complesso fanno crescere la «produttivi­tà aggregata» di un sistema economico).

Al contrario, conclude l’articolo della Bce, nuove «restrizion­i al commercio ridurrebbe­ro la crescita della produttivi­tà aggregata, come risultato di una minore produttivi­tà delle imprese individual­i e di una allocazion­e delle risorse meno efficiente».

LA PALESTRA DELL’EXPORT Secondo la Bce le imprese che esportano hanno produttivi­tà più alta, dimensioni più grandi, e pagano stipendi più ricchi

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