Se l’«infallibilità» di Trump ostacola la democrazia Usa
I politici di oggi non vogliono assumersi le loro responsabilità
Due settimane dopo che il presidente Trump aveva sostenuto che l’amministrazione Obama aveva intercettato lui e i suoi collaboratori durante la campagna elettorale, il suo addetto stampa ha lasciato intendere che queste intercettazioni immaginarie erano state effettuate dal Gchq, il corrispettivo inglese della National Security Agency statunitense. Le autorità britanniche si sono infuriate e poco dopo sulla stampa di Oltremanica è apparsa la notizia che l’amministrazione Trump aveva chiesto scusa.
Invece no: nell’incontro con la cancelliera tedesca (un altro alleato che si sta inimicando), Trump ha insistito che non c’era nulla di cui scusarsi. Ha detto: «Abbiamo semplicemente citato una mente legale di grande talento», cioè un commentatore di Fox News (l’avreste mai detto?).
Insomma, ciò che appare chiaro è che questa amministrazione opera sulla base della dottrina dell’«infallibilità» del Presidente Trump: nulla di ciò che dice il presidente è sbagliato, che sia la falsa affermazione di aver vinto il voto popolare o la tesi che il tasso di omicidi negli Stati Uniti – che è ai minimi storici –, abbia raggiunto livelli record. Nessun errore viene mai ammesso. E non c’è mai nulla di cui scusarsi.
Ma l’incapacità patologica di Trump di accettare la responsabilità è soltanto il culmine di una tendenza. La politica americana (quantomeno su un certo versante) soffre di un’epidemia di infallibilità, individui potenti che non ammettono mai, mai di aver commesso un errore.
Più di un decennio fa scrivevo che l’amministrazione Bush soffriva di un «gap di onestà intellettuale». Nessun esponente di quell’amministrazione sembrava mai disposto a prendersi la responsabilità per gli insuccessi, che si trattasse della pasticciata occupazione dell’Iraq o della disastrosa risposta all’uragano Katrina.
Qualche anno più tardi, dopo la crisi finanziaria, abbiamo osservato un’analoga incapacità di ammettere gli errori in molti commentatori economici.
Prendiamo per esempio la lettera aperta che il fior fiore degli economisti conservatori inviò a Ben Bernanke, all’epoca presidente della Federal Reserve, nel 2010, ammonendolo che le sue politiche potevano condurre a una «svalutazione della moneta e all’inflazione». Non è stato così. Ma quattro anni dopo, quando la Bloomberg News ha contattato molti dei firmatari di quella lettera, nessuno è stato disposto ad ammettere di essersi sbagliato.
Fra l’altro, gli organi di stampa riferiscono che uno di quei firmatari, Kevin Hassett (coautore del libro «Dow 36,000») a quanto sembra sarà chiamato da Trump a presiedere il Consiglio dei consulenti economici. Un altro, David Malpass (l’ex economista capo della Bear Stearns, che alla vigilia della crisi finanziaria dichiarò «l’economia è robusta»), è stato nominato sottosegretario al Tesoro per gli affari internazionali. Non faranno fatica a integrarsi, in questa amministrazione, stanti così le cose.
Tanto per essere chiaro: tutti commettiamo errori. Alcuni di questi errori rientrano nella categoria «nessuno avrebbe potuto saperlo». Ma c’è anche la tentazione di lasciarsi andare a «ragionamenti motivati», di lasciare che le emozioni prevalgano sulle proprie facoltà critiche, e di tanto in tanto quasi tutti cedono a questa tentazione (io stesso l’ho fatto, da ultimo nella notte delle elezioni). Insomma, nessuno è perfetto. Il punto, però, è cercare di far meglio, che significa ammettere i tuoi errori e imparare da essi. Ma è qualco- sa che le persone che in questo momento governano l’America non fanno mai, mai. Che cosa ci è successo? In parte ha sicuramente a che fare con l’ideologia: ammettere di essersi sbagliati, per i repubblicani, sembra essere un atto di slealtà politica. Al contrario, gli esponenti dell’amministrazione Obama, dal presidente in giù, in generale erano più disposti dei loro predecessori ad assumersi la responsabilità. Ma quello che sta succedendo con Trump e i suoi più che una questione di ideologia sembra un problema di fragilità dell’ego. Ammettere di essersi sbagliati su qualsiasi cosa, sembrano pensare, li marchierebbe come dei perdenti e li farebbe apparire piccoli.
La verità ovviamente è che l’incapacità di praticare la riflessione e l’autocritica è segno di un animo meschino e inaridito: ma non se ne rendono conto. Ma perché così tanti americani hanno votato per Trump, i cui limiti caratteriali erano evidenti ben prima del voto? L’incapacità dei media e la disonestà dell’Fbi hanno giocato un ruolo cruciale, ma la mia sensazione è che stia succedendo qualcosa nella nostra società: molti americani non sembrano più capire quali dovrebbero essere le caratteristiche di un leader e scambiano la magniloquenza e l’aggressività per reale fermezza. Perché? È per la cultura delle celebrità? È per la disperazione della classe operaia, che trova sfogo in una bramosia di persone che blaterano slogan semplicistici?
La verità è che non lo so. Ma possiamo almeno sperare che vedere Trump in azione sarà un’esperienza istruttiva: non per lui, perché lui sembra non imparare mai nulla, ma per l’insieme dei cittadini. E forse, ma soltanto forse, alla fine avremo di nuovo un adulto responsabile alla Casa Bianca.