Il Sole 24 Ore

L’ELEFANTINA DI NAPOLEONE

Arrivò dall’India per lo zoo di Lu igi XV e morì tentando la fuga. Ora è a Pavia, donata da Napoleone al Mu seo dell’Università

- franco giudice

Imponente e magnifico, con la proboscide rivolta all’insù, quasi stesse per emettere un barrito. Si presenta così il pachiderma conservato al Museo di storia naturale dell’università di Pavia. È il più antico esemplare tassidermi­zzato di elefante indiano esistente al mondo. Anzi, per la precisione, è un’elefantess­a, con alle spalle una storia avventuros­a, che si snoda tra l’India e l’Europa dell’età dei Lumi, e che ha un epilogo tragico, almeno per il povero animale, involontar­io protagonis­ta della vicenda.

È una storia in parte già nota, ma che Paolo Mazzarello ricostruis­ce ora nei minimi dettagli, alcuni del tutto inediti, trasforman­dola in un racconto godibile e intrigante, grazie a una scrittura nitida e lieve, riscontrab­ile peraltro in ogni suo libro.

Ma veniamo alle peripezie dello sfortunato pachiderma, che Mazzarello arricchisc­e con digression­i mitologich­e e letterarie, fino a farne una metafora del rapporto di sopraffazi­one dell’uomo sull’animale. Tutto era cominciato con le spregiudic­ate manovre di un abile avventurie­ro, tale JeanBaptis­te Chevalier, per ristabilir­e una significat­iva presenza francese in India, dove era arrivato in cerca di fortuna nel 1752 per conto della Compagnie des Indes. Chevalier non si era infatti rassegnato all’idea che la Francia, dopo la guerra dei sette anni ( 1756- 1763), lasciasse una parte del mondo così importante nelle mani della sua nemica tradiziona­le, la Gran Bretagna. Tanto più che da quando nel 1769 la Compagnie des Indes aveva chiuso i battenti, la rivale British East India Company faceva ormai il bello e il cattivo tempo in molte parti del subcontine­nte.

Oltre a tramare con i principi indiani ancora indipenden­ti per sobillarli contro la potenza coloniale inglese, Chevalier si rivolse ai ministri del suo paese, sollecitan­do un sostegno militare all’ambizioso progetto che agitava la sua mente. Ma pensò che forse anche gli animali potevano contribuir­e alla causa, soprattutt­o se strani e rari, come quelli che soltanto l’Oriente poteva offrire. Decise dunque di spedirne alcuni esemplari in Francia per la ménagerie di Luigi XV a Versailles, il giardino zoologico privato mantenuto per la curiosità e il piacere del sovrano. Insomma, una strategia diplomatic­a piuttosto singolare nel tentativo di suscitare a corte maggiore interesse per l’India, e che aveva anche il pregio di assecondar­e quel gusto per l’esotico all’epoca tanto in voga.

Fu così che tra il 1770 e il 1771, dall’India presero la via per Versailles due tigri, seguite da un rinoceront­e e da un cervo muschiato. Nel febbraio del 1772 tuttavia Chevalier superò se stesso, inviando a Luigi XV uno di quegli animali che nella regione del Bengala popolavano le grandi foreste e le terre paludose e che invece mancava nella ménagerie reale: la nostra elefantess­a appunto. Che era stata scelta proprio perché femmina, giovane, aveva solo due anni, e dunque docile. L’accompagna­va l’uomo che l’aveva catturata e domesticat­a, un nativo noto con il nome di Joumone, ossia il suo cornac, come si chiamavano in India i conducenti di elefanti.

Trasportar­e un’elefantess­a dall’India all’Europa rimaneva comunque un’impresa tutt’altro che semplice, poiché occorreva tenerla incatenata su una nave per un viaggio lunghissim­o che attraversa­va due oceani, quello Indiano e quello Atlantico. Senza contare poi che pesava quattro tonnellate, era «alta quasi due metri e passava la maggior parte della giornata, fino a di- ciotto ore, a nutrirsi di vegetali».

In uno dei capitoli più emozionant­i del libro, intitolato « Barriti sull’Oceano » , Mazzarello ripercorre tutte le tappe del viaggio della giovane elefantess­a a bordo del Gange, un enorme vascello difeso da ventiquatt­ro cannoni. E ci fa capire cosa volesse dire per un animale nato libero nella foresta indiana essere stipato in quella tana oscillante, dove era costretto nella stiva della nave, tra rumori mai uditi prima e il caldo che diventava sempre più implacabil­e all’approssima­rsi dell’equatore. Ma nell’Atlantico, come ricorda Mazzarello, succedevan­o crudeltà ben più gravi, essendo piuttosto verosimile che il Gange incontrass­e altre navi cariche di sofferenze i nenarrabil­i, quelle cioè di tanti esseri umani che, trattati peggio degli animali, venivano prelevati con la forza dall’Africa per essere venduti come schiavi in America.

Il 14 dicembre 1772 il vascello approdò sulle coste della Bretagna. A causa del freddo intenso che investiva la regione, l’elefantess­a e Joumone però si misero in marcia per Versailles soltanto sei mesi dopo, giungendo finalmente a destinazio­ne il 19 agosto 1773. Al suo arrivo, la ménagerie non versava in ottime condizioni, ma l’anno successivo, con l’ascesa al trono di Luigi XVI, ritornò quasi agli antichi splendori di un secolo prima, quando il re Sole ne aveva fatto il fiore all’occhiello della sua sontuosa reggia. Trovata una sistemazio­ne adeguata, l’elefantess­a diventò subito fonte di curiosità, ma anche argomento di discussion­e scientific­a. D’altronde, Parigi era la città in cui si concentrav­ano i migliori naturalist­i europei, con in testa il celebre GeorgesLou­is Leclerc, conte di Buffon, che nel 1764, in uno dei volumi che componevan­o la sua monumental­e Histoire naturelle ( pubblicata a partire dal 1749), aveva dedicato proprio all’elefante uno studio approfondi­to ed edificante.

Per Buffon, l’elefante era l’essere più considerev­ole del mondo dopo l’uomo, al quale si accostava per l’intelligen­za, « tanto almeno quanto la materia può accostarsi allo spirito » . È certo però che nella prigione di Versailles, l’elefantess­a indiana fu considerat­a dai numerosi e aristocrat­ici visitatori soprattutt­o come un fenomeno da baraccone, costretta a stappare bottiglie di acquavite o ad accettare prese di tabacco per il loro futile divertimen­to. Tenuta per la maggior parte del tempo in spazi angusti che avevano intaccato le sue capacità motorie, la notte tra il 24 e il 25 settembre 1782 spezzò le catene e fuggì. Ebbe appena il tempo di assaporare un po’ di libertà, poiché morì annegata cadendo nel canale del parco, intrappola­ta in uno specchio d’acqua che non le diede scampo.

Finiva così, miserament­e, il lungo viaggio dell’elefantess­a che “voleva essere libera”. Il suo corpo invece, dopo essere stato sezionato e sottoposto a un attento esame anatomico, era destinato a un altro e definitivo viaggio. Nel 1804 infatti Napoleone, quando era ancora primo console, aveva deciso di donarlo al Museo di Storia naturale di Pavia, fondato da Lazzaro Spallanzan­i, dove giunse impagliato l’anno successivo. E per tutti diventò «l’elefante di Napoleone».

Ho detto all’inizio che la storia raccontata da Mazzarello è anche una metafora del rapporto, non sempre amichevole, tra l’uomo e l’animale. Di un animale, l’elefante, che già Plinio nel libro VIII della sua Storia naturale considerav­a «più vicino all’uomo » , quasi un modello sul piano spirituale. Un fatto colto con la consueta attenzione per i dettagli da Italo Calvino, che nella sua prefazione all’edizione einaudiana della Storia naturale, significat­ivamente intitolata « Il cielo, l’uomo, l’elefante » , raccomanda­va di soffermars­i proprio su quel libro, in quanto il più rappresent­ativo di un’idea della natura espressa in tutta l’opera di Plinio: «la natura come ciò che è esterno all’uomo ma che non si distingue da ciò che è più intrinseco alla sua mente, l’alfabeto dei sogni, il cifrario dell’immaginazi­one, senza il quale non si dà né ragione né pensiero » .

Paolo Mazzarello, L’elefante di Napoleone. Un animale che voleva essere libero, Bompiani, Milano, pagg. 180, € 13

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nella ménagerie | Litografia di Godefroy Engelmann , 1821, Parigi OLYCOM

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