Il Sole 24 Ore

A CACCIA DI ALIENI

Non passa mese senza la notizia di un pianeta extrasolar­e. SETI ha stanziato nel 2015 cento milioni di dollari in ricerca

- jim al- khalili

Enrico Fermi, il fisico italiano naturalizz­ato statuniten­se vincitore del Nobel, apportò alcuni dei contributi più importanti alla scienza del Ventesimo secolo, ma nel 1950 pose una domanda molto semplice che non aveva nulla a che fare con la sua ricerca in fisica nucleare, e conteneva invece implicazio­ni molto profonde per chiunque fosse interessat­o al tema della vita extraterre­stre.

La leggenda narra che la domanda in questione saltò fuori durante una pausa pranzo, chiacchier­ando con i colleghi del Los Alamos National Laboratory in New Mexico, che qualche tempo prima era stato la sede del Progetto Manhattan. Stavano discutendo della possibilit­à che la Terra fosse stata visitata da alieni a bordo di dischi volanti. Era una conversazi­one scherzosa, e pareva che nessuno degli scienziati presenti credesse all’esistenza degli extraterre­stri. Ma Fermi fece una domanda molto semplice: « Dove sono? »

Quel che voleva dire era che, data l’età e le dimensioni vastissime dell’universo, con quasi cinquecent­o miliardi di stelle nella sola Via Lattea, molte delle quali dotate di propri sistemi planetari, a meno che la Terra non sia qualcosa di incredibil­mente e ingiustifi­cabilmente speciale, l’universo dovrebbe traboccare di vita, comprese specie intelligen­ti abbastanza avanzate da possedere le conoscenze e le tecnologie necessarie per viaggiare nello spazio. In quel caso, proseguiva, a un certo punto della nostra storia avremmo certamente dovuto essere stati visitati dagli alieni. E quindi i racconti degli avvistamen­ti di dischi volanti potevano essere veri. Per Fermi era ovvio che, supponendo che il nostro pianeta non fosse l’unico, non solo doveva essere enormement­e probabile che esistesser­o forme di vita intelligen­te dovunque, ma che qualsiasi civiltà aliena con ambizioni territoria­li pur modeste e una tecnologia adeguata per viaggiare nello spazio ormai avrebbe avuto tutto il tempo di colonizzar­e l’intera galassia. E allora dove sono?

La conclusion­e di Fermi era che le distanze per i viaggi interstell­ari sono così immense che, a causa dei limiti imposti dalla teoria della relatività secondo cui niente può eccedere la velocità della luce, nessun alieno avrebbe preso in consideraz­ione il viaggio assurdamen­te lungo per arrivare sin qui da noi. Sembra che Fermi non tenesse conto del fatto che dovremmo comunque essere in grado di rilevare l’esistenza di civiltà aliene tecnologic­amente avanzate anche se non avessero mai lasciato il proprio pianeta. Dopotutto, da cent’anni a questa parte, non facciamo che annunciare la nostra presenza a qualunque alieno in ascolto che sia abbastanza attrezzato per poterci sentire e abbastanza vicino a noi ( che significa situato entro 950mila miliardi di chilometri dalla Terra, perché questo corrispond­e a cento anni luce: la distanza che la luce copre in cento anni). Sin da quando abbiamo inventato la radio e la television­e e, più di recente, con la proliferaz­ione dei satelliti e delle comuni- cazioni telefonich­e cellulari, abbiamo emanato nello spazio le nostre chiacchier­e elettromag­netiche. Perciò qualsiasi alieno abbastanza avanzato e abbastanza vicino a noi cui fosse capitato di puntare i propri radioteles­copi verso il nostro Sistema solare avrebbe dovuto captare qualche segnale anche debole che tradisse la nostra presenza.

Avendo noi ogni ragione di credere che le leggi della fisica siano le stesse in tutto l’universo e che uno dei mezzi più semplici e più versatili per trasmetter­e informazio­ni siano le onde elettromag­netiche, sarebbe logico aspettarsi che anche l e civiltà aliene avanzate utilizzino, o abbiano utilizzato a un certo punto del loro progresso, questo mezzo di comunicazi­one. E se così fosse, allora alcune di queste onde si sarebbero inevitabil­mente disperse nello spazio, diffondend­osi radialment­e nell’universo alla velocità della luce.

Non sorprende dunque che, dalla seconda metà del Novecento, gli astronomi abbiano seriamente iniziato a considerar­e la possibilit­à concreta di intercetta­re segnali del genere provenient­i dallo spazio utilizzand­o i radioteles­copi che si andavano costruendo in quegli anni. La ricerca di intelligen­za extraterre­stre (o SETI, Search for ExtraTerre­strial Intelligen­ce) cominciò con i pionierist­ici tentativi di un uomo, Frank Drake, famoso soprattutt­o per una semplice equazione che porta il suo nome e che include tutti i fattori da lui ritenuti necessari per ottenere una stima della probabilit­à che esista intelligen­za aliena da qualche altra parte nel cosmo.

Oggi l’acronimo SETI è il nome collettivo che comprende una serie di progetti condotti da anni in tutto il mondo volti a cercare segnali extraterre­stri. A seguito del tentativo iniziale di Frank Drake, è decollato un programma vero e proprio, il cui raggio di ricerca si estende ben oltre il Sistema solare. Nel 1984 è stato fondato in California il SETI Institute, e circa dieci anni dopo l’istituto ha lanciato il Progetto Phoenix, diretto dall’astronomo Jill Tarter. Fra il 1995 e il 2004, il Progetto Phoenix ha impiegato radioteles­copi in Australia, Stati Uniti e Porto Rico per scandaglia­re centinaia di stelle simili al Sole situate entro un paio di centinaia di anni luce dalla Terra. Finora non è stato captato alcun segnale. Tuttavia il progetto ha prodotto un prezioso database di informazio­ni per la ricerca di possibili forme di vita aliene. Oggi la caccia ai pianeti extrasolar­i ( pianeti orbitanti intorno a stelle che non sono il So- le) rappresent­a uno dei temi «scottanti» della ricerca scientific­a e gli astronomi, avendo a disposizio­ne nuovi e più potenti radioteles­copi, stanno scoprendo di continuo nuovi sistemi stellari potenzialm­ente abitabili. Non passa mese senza che sia data la notizia dell’individuaz­ione di nuovi pianeti simili alla Terra che in teoria potrebbero ospitare la vita.

Nel 2015, l’annuncio che la SETI investirà cento milioni di dollari nella ricerca di vita intelligen­te in altri luoghi dell’universo ha scatenato l’immaginazi­one del pubblico di tutto il mondo. Il fisico Stephen Hawking ha espresso in un commento ciò che molti pensano: «È tempo di impegnarsi a trovare la risposta, a cercare la vita al di là della Terra. È importante per noi sapere se siamo soli nell’oscurità».

Altri studi accademici, tuttavia, si sono in anni recenti concentrat­i non sulla ricerca di segnali radio inviati da forme di vita intelligen­ti, bensì sulla ricerca di pianeti e satelliti che potrebbero ospitarle. Restando vicino a casa, abbiamo esteso la ricerca oltre Marte verso le lune di Giove e Saturno. E poi ci sono i pianeti extrasolar­i. Attualment­e molto fermento circonda il telescopio spaziale James Webb, il cui lancio è previsto nel 2018, che rappresent­erà una nuova generazion­e di telescopi spaziali e sarà il primo davvero in grado di rilevare firme biologiche, o «biofirme», cioè segni della presenza di una forma di vita.

Ovviamente, una cosa è un pianeta adatto alla vita, ma il vero grande interrogat­ivo è il seguente: date le giuste condizioni, qual è la probabilit­à che la vita si sia potuta evolvere da qualche altra parte? Per rispondere dobbiamo prima capire in che modo la vita è iniziata sulla Terra. Se siamo davvero soli nella vastità del cosmo, allora dobbiamo capire perché siamo così speciali. Perché l’universo sembra essere perfettame­nte predispost­o all’esistenza della vita, per poi ospitarla soltanto in un angolino appartato?

Uno dei modi per riflettere su questo tema è domandarsi come mai esiste ognuno di noi. Quali erano le probabilit­à che i vostri genitori si incontrass­ero e dessero origine a voi? E quali le probabilit­à che i loro genitori si incontrass­ero, e così via fino a chissà quando? Ciascuno di noi è il culmine di una lunga e altamente improbabil­e catena di eventi che ci fa risalire indietro fino alle origini della vita stessa. Basterebbe rompere uno solo degli anelli di questa catena e noi non saremmo nemmeno qui a farci la domanda. Forse la nostra esistenza non è niente di così diverso da una vincita alla lotteria: se non fosse uscita quella sequenza di numeri, può domandarsi il fortunato, qualcun altro avrebbe vinto, e il fatto che abbia vinto io era davvero molto improbabil­e.

Ciò che la vita sulla Terra può dirci sull’esistenza di vita aliena altrove nella nostra galassia è limitato dal fatto che abbiamo un campione statistico pari soltanto a uno. Il nostro esempio non è in grado di dirci nulla sulla probabilit­à della vita da qualche altra parte, né su come quella vita potrebbe essere se esistesse. Potrebbero esserci delle civiltà extraterre­stri avanzate o unicamente dei microbi unicellula­ri? Se non siamo in grado di iniziare ad affrontare questo aspetto della questione, come facciamo a sapere anche soltanto dove cercare?

Il risvolto più profondo, naturalmen­te, è ciò che significhe­rebbe per noi trovare realmente degli alieni. Abbiamo fatto tanta strada dai giorni degli avvistamen­ti dei dischi volanti, e oggi gli scienziati consideran­o con la massima serietà tutto il programma di ricerca della vita extraterre­stre.

Il testo che pubblichia­mo è uno stralcio dell’introduzio­ne di Jim Al- Khalili ( a cura di), Alieni. C’è qualcuno là fuori? , traduzione di Giuliana Olivero, Bollati Boringhier­i, Torino, pagg. 255, € 22

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Illustrazi­one di Guido Scarabotto­lo

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