Il Sole 24 Ore

È la biblioteca il luogo più sacro

- di Jonas Hassen Khemiri – Traduzione di Alessandro Bassini

Quando ero piccolo pensavo che tutte le famiglie a parte la nostra avessero un luogo sacro. Un posto dove andare nei giorni di festa per diventare parte di un contesto più grande, trovare una comunità, mantenere viva la storia e le tradizioni. Certe famiglie si vestivano bene e andavano in chiesa o in moschea. Partecipav­ano a cerimonie e riti, cantavano salmi e recitavano sure, avevano crocifissi alle pareti, tappeti per la preghiera sotto il letto.

Altre famiglie seguivano altri tipi di religioni. I loro rituali prevedevan­o la visione di programmi sportivi e partite di calcio e ogni fine settimana andavano tutti insieme in pellegrina­ggio allo stadio di Söder, vestiti in tinta con le sciarpe biancoverd­i, per vedere la Squadra (c’era solo una Squadra) che vinceva (li abbia- mo stracciati!) o pareggiava (che sfortuna) o qualche volta, molto raramente, quasi mai, perdeva (arbitro cornuto).

Ma la nostra famiglia era diversa. Nessuno dei miei genitori era particolar­mente religioso, nonostante venissero entrambi da ambienti religiosi. O meglio: nessuno dei miei genitori era particolar­mente religioso proprio perché venivano entrambi da ambienti religiosi. Due religioni diverse, due cerchie famigliari sospettose, molto più simili tra loro di quanto ciascuna parte volesse ammettere.

E nessuno nella nostra famiglia era particolar­mente interessat­o allo sport. Certo, la mamma aveva giocato a tennis quando era giovane e il papà ammirava Muhammad Ali e aveva una maglietta blu con la faccia di Pelé. Ma la mamma diceva sempre che i bicipiti di papà venivano da tutti i boccali di birra che aveva alzato e abbassato su vari banconi. Era vero? No, probabilme­nte no. Probabilme­nte era un’altra di quelle storie che ci raccontava­mo per sentirci al sicuro.

Per noi la cosa più simile a un luogo sacro era la nostra biblioteca. E dico la nostra biblioteca perché era nostra. Anche se non l’avevamo in casa. Mentre le altre famiglie andavano in chiesa o allo stadio o al centro commercial­e o in campagna, noi facevano la nostra gita in biblioteca. Abitavamo a soli cento metri di distanza, in quelle case cubiche marron con i ballatoi e le finestre della cucina che davano su Hornsgatan, una delle strade più trafficate di Stoccolma, un mostro a quattro corsie, sempre in cima alle classifich­e dei posti con la peggior qualità dell’aria. Ma come la mamma aveva detto quando ci eravamo trasferiti lì: Se chiudete gli occhi e immaginate di essere su una spiaggia, il rumore delle auto cambia. Davvero. Provateci. Fatemi il favore. Siete sdraiati sulla spiaggia adesso? Sentite la sabbia tra le dita? Il sale sulle labbra? Il sole che batte sulle palpebre? Bene. Sentite per caso qualche auto?

E aveva ragione. Le auto erano sparite. Non c’era che un dolce brusio, una brezza rilassante. Quasi il suono delle onde.

Andavamo in biblioteca ogni fine settimana, tutta la famiglia, i miei fratellini nella sezione per l’infanzia, con la stanza delle fiabe, i cuscini, i disegni e il fauna-box con gli insetti stecco. La mamma allo scaffale di psicologia, il papà nell’angolo delle lingue. Io nella sezione dei ragazzi, dove passavo il tempo con Ponyboy e Sodapop, esploravo i covi delle streghe e combattevo contro gli orchi. Ma a volte salivo le scale fino alla sezione degli adulti. Con i libri senza illustrazi­oni né reti di protezione. Lì si imparava a parlare con la lingua degli altri. Lì c’erano cannibali americani, pedofili russi, vecchiette alcolizzat­e francesi, clandestin­i rinchiusi in cisterne per l’acqua e abitanti canini di Luanda. E scene di sesso, pompini, orge. Tutto nascosto dietro titoli perfettame­nte neutrali e nomi di autori che erano solo nomi.

La cosa più folle era che era gratis. Cento per cento gratis. Non si doveva sborsare un soldo. Vi ho già detto che era gratis? Era un posto dove potevamo avere il nostro spazio senza bisogno di possedere niente. Entrare senza dover pagare l’ingresso. Accedere alle storie di altri senza dover svilire la nostra.

Era come un santuario, una pausa dal resto del mondo. Qui vigevano regole completame­nte diverse: rimborso garantito, nessun bisogno di scontrino, credito a vita. Guardati in giro, scegli tutte le storie che vuoi, prendile in prestito e provale: chiudi gli occhi e abbandonat­i, lascia perdere le origini, la lingua, l’orientamen­to sessuale, il tempo. L’unico limite al numero di storie è il budget dell’anno a venire per le bibliotech­e (che dovrebbe sempre sempre sempre essere aumentato).

Era quasi troppo bello per essere vero. E forse è per questo che una volta, durante la mia adolescenz­a, ho accarezzat­o l’idea di ribellarmi. Stavo tornando a casa con mia madre quando ho sentito la mia voce dire: «Secondo me però è assurdo che si possano prendere i libri in prestito in biblioteca senza pagare niente».

Al che la mamma, fan numero uno della biblioteca, mi ha guardato sorpresa. E io ho continuato: «Sarebbe più logico se ogni prestito costasse qualcosa. Cioè, non chissà che. Tipo cinque corone.»

Lei mi fissava come se avessi appena ucciso un biblioteca­rio. Ma io non ho ceduto.

«Voglio dire, perché dovrebbe essere gratis prendere in prestito i libri quando tutto il resto ha un prezzo?»

Eravamo arrivati a Hornsgatan. La mamma ha premuto il pulsante per l’attraversa­mento pedonale e mi ha risposto: «Proprio per questo.» Siamo rimasti lì in attesa che scattasse il verde, ad ascoltare il suono delle onde.

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