L’impiegato misterioso
Vent’anni fa, nel settembre del 1997, scompariva Stelio Mattioni, l’impiegato triestino che divenne una delle più originali scoperte letterarie del Dopoguerra. «Uno scrittore che pare del tutto eccezionale, ha un mondo fantastico proprio e di grande forza ed è misterioso sul serio», scrisse Italo Calvino a Elio Vittorini nel 1960. Il parere fu fondamentale per lanciare due anni dopo Mattioni come autore Einaudi con una raccolta di racconti dal titolo Il sosia. A spiegare la figura di questo narratore, purtroppo dimenticato, ne L’impiegato triestino maestro di storie, è la figlia di Stelio, Chiara, traduttrice e giornalista. Un lavoro di scavo con sensibilità e padronanza dell’argomento, in cui la parentela è usata solo come grimaldello per rivelare fatti inediti, attraverso testimonianze dirette (tra cui quella degli studiosi, Elvio Guagnini e Claudio Magris), manoscritti, lettere (firmate, tra gli altri, da Pier Antonio Quarantotti Gambini e Linuccia Saba), fotografie, documenti mai usciti dall’archivio di famiglia e curati con precisione dalla moglie dell’autore, Maria. Il libro ha inizio con l’incontro di Mattioni con Bobi Bazlen, fondatore assieme a Luciano Foà dell’Adelphi, casa editrice per cui uscirono i successivi romanzi, Il re ne comanda una (1968) - finalista al premio Campiello come anche Il richiamo di Alma (1980) -, Palla avvelenata (1971), Vita col mare (1973), La stanza dei rifiuti (1976) e Tululù, postumo (2002). Fu Bazlen, che scoprì Svevo e fece pubblicare Musil, a individuare le doti di scrittore in Mattioni, nonostante questi avesse sollecitato l’incontro solo per informarsi su Umberto Saba, di cui pubblicò, quasi trent’anni dopo, la biografia, Storia di Umberto Saba (Camunia, 1989).
Allucinato con una prosa asciutta, ironico secondo la tradizione del Wiz triestino, con un «doppio, triplo fondo» come sostiene Guagnini, Stelio Mattioni ha raccolto, aggiungendo elementi fantastici e grotteschi, la tradizione del romanzo psicoanalitico di Svevo, autore cui Claudio Magris - di cui il libro ospita una testimonianza -, paragona Mattioni. Ne mette in rilievo l’inquietudine, la miseria e l’incanto nella sua letteratura fatta di esistenze apparentemente banali, in cui si aprono stanze piene di sorprese. Chiara racconta la vita del padre rintracciando, dopo quasi sessant’anni, la madrina di guerra, che fu per lui un amore solo vagheggiato. Racconta il lavoro alienante alla raffineria tra timbri, registri e inchiostro; il matrimonio anelato con la cugina, da cui ebbe i due figli, Marco e Chiara; le strane storie che gli si imponevano, come quella del figlio segreto di Saba.
Struggente, e questa sì personalissima, è la descrizione di come una figlia vede il padre scrittore («una porta sempre chiusa») e della Trieste, ripercorsa attraverso gli itinerari letterari di Mattioni. Non manca il punto sulle vicende editoriali, sulla fortuna critica (quella commerciale non è mai arrivata) e sugli inediti, come Camàn sull’esperienza della prigionia in Africa con gli inglesi, che potrebbero rimettere di nuovo in pista «questo dimesso signore kafkiano», che, come dice Magris, «è uno dei nostri scrittori più forti e incisivi». Chiara Mattioni, L’impiegato triestino maestro di storie, Eut, Edizioni Università di Trieste, pagg. 240, € 14