Il Sole 24 Ore

Granelli di miglio nello spazio infinito

- Vincenzo Barone

planetario non è un evento raro, ma la questione è rimasta per lungo tempo puramente teorica. Solo nel 1995, grazie alle osservazio­ni di Michel Mayor e Didier Queloz (tenete a mente il nome di questi due studiosi svizzeri, perché prima o poi riceverann­o il Nobel), è stato scoperto il primo pianeta extrasolar­e, o «esopianeta» orbitante attorno alla stella 51 Pegasi.Da allora, il numero di esopianeti accertati ha superato quota tremilacin­quecento e cresce a vista d’occhio (per un aggiorname­nto si veda il sito exoplanet.eu).

Grande risonanza (anche mediatica) hanno avuto due scoperte recenti: quella – la scorsa estate – di Proxima b, un esopianeta in orbita attorno a Proxima Centauri, la stella più vicina a noi (una nana rossa distante 4 anni luce), e quella – poche settimane fa – di un sistema di sette esopianeti di dimensioni terrestri attorno a Trappist-1, una stella a circa 40 anni luce di distanza dalla Terra.

Il fatto che alcuni di questi pianeti si trovino nella zona abitabile della loro stella, cioè nella regione in cui possono mantenere sulla propria superficie acqua allo stato liquido, li rende ottimi candidati a ospitare qualche forma di vita. Inoltre, la loro relativa vicinanza ha stimolato l’immaginazi­one di quanti ritengono che li potremo un giorno esplorare, per esempio con una flotta di micronavet­te spinte da fasci laser (è l’idea del progetto Breakthrou­gh Starshot di Yuri Milner, Stephen Hawking e Mark Zuckerberg).

Come testimonia­no i saggi raccolti da Jim Al-Khalili in Alieni, la ricerca di vita extraterre­stre è un campo molto attivo e genuinamen­te interdisci­plinare, in cui convergono studi di varia natura: da quelli astronomic­i e astrofisic­i a quelli biochimici riguardant­i l’evoluzione prebiotica e l’origine della vita sulla Terra. Quando si parla di alieni, però, non si pensa solo a forme di vita primordial­i. La mente corre anche a ET, alla possibilit­à che da qualche parte nell’universo – ma non sotto casa, come immaginano gli appassiona­ti di UFO – esistano esseri intelligen­ti (e anche di questo tratta esauriente­mente il libro di Al-Khalili).

La ricerca scientific­a di civiltà aliene prese avvio da una breve comunicazi­one apparsa nel 1959 sulla rivista Nature. Gli autori, l’italiano Giuseppe Cocconi e lo statuniten­se Phil Morrison, proponevan­o di puntare i radioteles­copi verso le stelle più vicine e di cercare dei segnali radio su particolar­i frequenze.

Ad accogliere il suggerimen­to fu un giovane astronomo, Frank Drake, che avviò così il progetto SETI ( Search for ExtraTerre­strial Intelligen­ce). Per stimare il numero di civiltà tecnologic­he presenti nella nostra galassia (come probabilme­nte aveva fatto Fermi nel corso della conversazi­one a Los Alamos, quando, a proposito degli extraterre­stri, si era chiesto «Dove sono tutti quanti?»), Drake elaborò una celebre formula, che esprimeva tale numero come il prodotto di vari fattori probabilis­tici. Di recente l’astrofisic­o Nikos Prantzos ha riscritto la formula di Drake in termini di tre soli parametri. Il primo, il tasso di formazione di pianeti abitabili nella Galassia, può essere valutato approssima­tivamente sulla base dei dati astronomic­i. Gli altri due, la probabilit­à che su un pianeta abitabile compaia una civiltà tecnologic­a e la durata media di una civiltà, sono invece piuttosto incerti. Dalla loro combinazio­ne dipende in maniera cruciale il successo di SETI. Se la vita media di una civiltà tecnologic­a fosse solo di qualche migliaio di anni (e non abbiamo motivi per escluderlo), rischierem­mo seriamente di essere soli nella Galassia. Se fosse di decine di migliaia di anni, forse esisterebb­ero delle altre civiltà nel nostro angolo di universo, ma difficilme­nte avremmo modo di incontrarl­e o contattarl­e, a causa della velocità limitata dei viaggi e dei segnali.

In fin dei conti, la ricerca di intelligen­ze extraterre­stri è anche una ricerca su noi stessi: sui meccanismi della coscienza, sul modo in cui comunichia­mo (è il tema centrale del film Arrival di Denis Villeneuve), sui segni distintivi di una specie intelligen­te, sulle nostre probabilit­à di sopravvive­nza a lungo termine. Sembra che Arthur C. Clarke abbia detto una volta: «Esistono due possibilit­à: o siamo soli nell’universo, o non lo siamo. Entrambe le alternativ­e sono terrifican­ti». Comunque la si pensi, non possiamo fare a meno di chiederci quale sia l’alternativ­a vera.

vincenzo.barone@uniupo.it

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