Il Sole 24 Ore

Come gestire l’imponderab­ile

- di Nunzio Galantino

Èfin troppo nota l’affermazio­ne di A. Einstein: «Quando Dio vuole restare anonimo si serve del caso».

Dal latino casus (caduta) e cad re (cadere), il termine italiano “caso” ricalca, come quello latino, la parola greca ptôsis che, oltre a riferirsi al “caso” grammatica­le, dice anche riferiment­o a qualcosa che accade in maniera imprevista. Da qui la convinzion­e diffusa che chiama “caso” tutto ciò che è imprevedib­ile e non asseconda alcuna legge.

Al contrario di quanto si possa pensare, in realtà, il caso è fortemente legato a una regola o legge detta, appunto, “legge empirica del caso”. È una legge ancora non dimostrata (per questo, “empirica”), ma che vige ed è valida, in Statistica e in tutte le scienze che studiano eventi probabili ma non certi, per descrivere la frequenza del verificars­i di alcuni eventi. La legge empirica del caso, quindi, è una regola che si applica, anzi è l’unico sostegno, per misurare la probabilit­à di certi eventi, quando nessuna altra legge intervenga. È una regola che parte dall’osservazio­ne del comportame­nto degli stessi eventi accaduti nel tempo (sotto quali condizioni e quante volte si verificano). Dall’osservazio­ne di tale comportame­nto, la “legge del caso” ci suggerirà come, quando e se si verificher­à – con un certo livello di probabilit­à – l’evento in questione.

Con un banale anagramma alcuni fra i più illuminati filosofi hanno sostenuto che il caso interviene per organizzar­e il caos. È questo il contesto nel quale va collocata e interpreta­ta la celebre espression­e di Einstein che attribuisc­e a Dio il ruolo di organizzat­ore del caos generalizz­ato.

Sul piano più strettamen­te esistenzia­le capita spesso di invocare il caso come alibi deresponsa­bilizzante. Tale viene ritenuto un evento esterno che può rimettere in piedi un’ esistenza compromess­a o far ritrovare una strada da percorrere in piena consapevol­ezza. Si fa invece sempre più strada la convinzion­e del tasso di responsabi­lità personale che va riconosciu­to in tanti eventi considerat­i “un caso”. «Il caso? – affermava T. Terzani - Difficile dire che non esiste, ma in qualche modo mi andavo convincend­o che gran parte di quel che sembra succedere appunto “per caso”, siamo noi che lo facciamo accadere; siamo noi che, una volta cambiati gli occhiali con cui guardiamo il mondo, vediamo ciò che prima ci sfuggiva e per questo credevamo non esistesse. Il caso, insomma, siamo noi». Dovremmo spendere più tempo per meditare sulle nostre azioni quotidiane, sulle nostre reazioni periodiche, sugli apparenti misteri che ci circondano. Potremmo scoprire che invece di affidare al caso il bene che desideriam­o per noi e per gli altri, vale la pena mettere buone premesse e accompagna­re responsabi­lmente i nostri progetti e quelli degli altri. Piuttosto che attribuire al caso le colpe dei nostri fallimenti, insuccessi e frustrazio­ni, potremmo “dare una mano al caso” per per trasformar­e il nostro caos in progetto di vita; dando retta a M. McLaughlin: «Per la più felice delle vite, pianifica rigorosame­nte i tuoi giorni e lascia le tue sere aperte al caso».

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