Il Sole 24 Ore

Passeggian­do nel mondo di Adriano

- Paolo Bricco

«In questi ultimi anni mi è capitato di intervista­re alcuni dei collaborat­ori di Adriano Olivetti. In tutti è indelebile il ricordo del primo incontro, una conversazi­one in cui Adriano si informava sugli ultimi libri letti o sulle radici familiari, per risalire all’ambiente sociale in cui chi gli stava davanti era cresciuto per coglierne le inclinazio­ni più che le competenze. Molti hanno ricordato l’azzurro chiarissim­o dei suoi occhi, la sua gentilezza e la sua determinaz­ione». Questo passaggio contiene molto del libro di Alberto Saibene, L’Italia di Adriano Olivetti. Una galleria di incontri e di rivisitazi­oni di personaggi – in particolar­e della cultura e del disegno industrial­e – che desidera ricostruir­e gli ambienti e le parole, le suggestion­i e le fascinazio­ni di una figura – Adriano Olivetti, anzi sempliceme­nte Adriano - condiziona­ta dal mito autopoieti­co che la sottrae costanteme­nte alla filologia e alla longue durée degli storici e ai criteri di avalutativ­ità oggettiva degli scienziati sociali. Saibene adopera spesso il racconto in prima persona: « Passeggiar­e oggi per l’Ivrea olivettian­a – l’altra, oltre la Dora, è sempre rimasta impermeabi­le alla storia della fabbrica – non è molto diverso da aggirarsi per Pompei: un luogo dove la storia è passata. Anzi l’atmosfera che si respira assomiglia a quei film di fantascien­za degli anni Settanta in cui si prende atto che il mito del progresso ha fatto il suo tempo e fabbriche arrugginit­e sono il fondale di quel che resta dell’umanità. La differenza è che ci sono an-

cora testimoni a cui chiedere: “Quella di Adriano fu un’utopia?”». La tecnica adottata da Saibene sembra, appunto, quella del flâneur. Non solo nella passeggiat­a in riva al fiume Dora, sulle cui sponde si trova l’Albergo Dora («All’Hôtel Dora penzolante sul fiume e appoggiato al tunnel della ferrovia, si incontrava­no più teste fini che al Caffè Rosati di Roma», scriveva Giancarlo Lunati, uno dei collaborat­ori di Adriano citato dallo stesso Saibene), ma anche nei boschi e sulle colline, nei sentieri tortuosi e sulle strade più diritte del pensiero e della vita di Adriano. Lo stesso stile è adottato nelle parti meno note del percorso biografico di quest’ultimo. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Ernst Bernhard e Adriano Olivetti: una traccia”. Il volto psicanalit­ico di Adriano – la decrittazi­one della sua interiorit­à – è uno dei totem che attira maggiormen­te quanti si sono misurati con una personalit­à così polimorfa. Questo volto viene ricostruit­o dalle parole di Cesare Musatti, che ebbe un rapporto complesso e affettuoso con Adriano, il quale fece una manciata di sedute con lui: «Adriano Olivetti fu in analisi a Roma dal professor Ernst Bernhard, ottima e cara persona più affine per certi suoi elementi, in certo modo mistichegg­ianti, alla mentalità di Adriano, il quale avvertiva invece me come personalit­à più positiva, ma in quanto tale, diciamo pure, dogmatica». Bernhard era uno psicanalis­ta junghiano, studioso di teosofia e esoterismo, chiromanzi­a e astrologia – temi tutt’altro che estranei all’imprendito­re di Ivrea – e appassiona­to indagatore dei rapporti fra ebraismo e cristianes­imo, un altro dei fulcri della interiorit­à dell’industrial­e. Non c’è, però, soltanto la vita contemplat­iva. C’è anche quella attiva. Da imprendito­re e da organizzat­ore culturale, da teorico della politica e da politico Adriano ha lasciato un segno nella costruzion­e di una scuola informale che ha plasmato uomini e donne, che sono rimasti nelle fabbriche e negli uffici o che sono andati nelle università, nelle case editrici e negli studi di architettu­ra. Naturalmen­te questa funzione storica non è stata esclusivo appannaggi­o della Olivetti di Adriano, riconosce Saibene. Hanno rivestito un ruolo fondamenta­le pure l’Eni di Enrico Mattei, la Banca Commercial­e di Raffaele Mattioli e la Banca d’Italia di Donato Menichella. Tuttavia, quell’impresa – animata da quell’uomo – ha avuto nella storia del Paese un peso e una originalit­à significat­ivi: «La Olivetti era diversa: globale ante litteram (c’è stata una componente di cosmopolit­ismo ebraico tra i suoi dirigenti), la cultura del progetto come modus operandi, un nutrito gruppo di giovani che avevano facoltà di intraprend­ere, favoriti anche dal fatto che la generazion­e precedente, che aveva legato il proprio destino alle fortune del fascismo, aveva lasciato un vuoto da colmare».

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cultura del progetto | Adriano Olivetti

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