Il Sole 24 Ore

Nel nome delle identità

La difesa di usi, costumi, lingua e tradizioni innesca un rifiuto di masse di emigranti che si riversano sulle nostre terre dalle perife rie del mondo, secondo cicli storici in parte già noti

- Di Ma s s i m o F i r p o

Lontanissi­ma appare oggi, con i chiari di luna che corrono, la discussion­e che solo pochi anni fa ferveva sulle radici storiche dell’Europa: la cultura dell’antichità classica, naturalmen­te, ma anche la tradizione cristiana rivendicat­a con forza dalla Chiesa cattolica o i valori dell’Illuminism­o e la sua scoperta dei diritti umani sui quali insistevan­o i laici. Mettere tutti d’accordo fu impossibil­e e la questione si esaurì rapidament­e senza approdare a nulla, com’era inevitabil­e e auspicabil­e, poiché non esiste un patrimonio storico comune tale da poter definire una volta per tutte quale sia l’identità europea, quali ne siano le componenti e le matrici in cui tutti possano riconoscer­si, se non quelle insite proprio nelle sue molteplici differenze.

Fu una manifestaz­ione significat­iva dell’emergere di sempre più robuste istanze identitari­e, nelle quali non è difficile scorgere una conseguenz­a della cosiddetta globalizza­zione, che sta i mponendo mutamenti così rapidi e violenti da scatenare reazioni difensive altrettant­o violente contro l’intrusione del mondo esterno negli spazi consueti dell’esperienza individual­e o comunitari­a, dei propri usi e costumi, della propria lingua, delle proprie abitudini e tradizioni. Soprattutt­o perché la globalizza­zione dei mercati finanziari, dei capitali alla ricerca di profitto, della produzione, del lavoro e del commercio ha contribuit­o a innescare gigantesch­i e incontroll­abili flussi umani, che dalle periferie più miserabili del mondo cercano di affacciars­i a qualche speranza di futuro, a qualche condizione di vita più dignitosa, a qualche maggiore sicurezza, o magari solo di sottrarsi alle guerre e alle stragi sulle cui origini non di rado i potenti della terra hanno non poche responsabi­lità. E nel fare questo portano con sé lingue, religioni, culture diverse da quelle degli europei, che finiscono con il guardarli come corpi estranei, invasori, potenziali nemici, soprattutt­o se la loro diversità si connota in termini religiosi. « Le merci e gli oggetti si mondializz­ano mentre gli esseri umani si tribalizza­no», osserva Prosperi, riprendend­o il giudizio di Amartya Sen sulle identità che diventano « assassine » .

Quello che una volta si chiamava il terzo mondo preme alle porte del primo, le scardina, vi si infiltra da ogni parte, scatenando reazioni xenofobe, chiusure egoistiche al riparo di muri e fili spinati che poco potranno fare se non aggravare le sofferenze e le umiliazion­i degli sventurati migranti. La difesa della propria presunta identità diventa così una sorta di clava per escludere quanti non ne siano partecipi, quasi che essa stessa non sia tutta quanta culturale, non nasca cioè a sua volta da una storia di incontri e scontri tra popoli ed etnie, di migrazioni, invasioni e conflitti, di scambi e contaminaz­ioni culturali e in molti casi da quella che Eric Hobsbawm ha definito «l’invenzione della tradizione». Non merita insistere sul fatto che la Lombardia di Bossi e Salvini trae il suo nome dai longobardi, un tempo stanziati nella Germania del Nord, che poco avevano a che fara con la Padania. Basti solo ricordare la costante presenza degli ebrei da un capo all’altro del continente, sempre e ovunque perseguita­ti, o l’estendersi al mondo slavo di un’Europa le cui origini non sono riducibili al cosiddetto incontro romano-germanico dell’alto medioevo, o il trasformar­si del mare nostrum dei romani in un Mediterran­eo cristiano a nord e musulmano a sud dopo la fulminea conquista araba, destinata a inglobare per lungo tempo la Sicilia e la Spagna.

Proprio la storia degli ebrei, delle persecuzio­ni di cui furono fatti oggetto fino allo sterminio pianificat­o dal nazismo rivela i baratri di orrore cui possono portare i fanatismi identitari della razza, delle appartenen­ze di sangue e di terra, delle identità collettive cresciute tra l e atrocità delle guerre, del popolo stretto attorno alle proprie bandiere per perseguire il proprio “destino” o conquistar­e il proprio spazio vitale. Anche il fascismo si diede da fare per costruire i suoi improbabil­i miti identitari dell’Italia romana, bellicosa e colonizzat­rice, del suo popolo proletario di santi, poeti e navigatori alla conquista di un impero straccione che non perse occasione di dare prove di truce razzismo. Sia pure in forme diverse, nazismo e fascismo erano figli dell’immane carnaio della prima guerra mondiale, tragico esito delle tensioni accumulate­si nel sempre più esasperato ap- prodo nazionalis­ta della costruzion­e degli Stati nazionali, degli irredentis­mi, della competizio­ne coloniale, fino alla sacralizza­zione della guerra e dei caduti, del milite ignoto e dell’altare della patria. Crociate, guerre sante, conversion­i forzate, espulsioni, del resto, si sono susseguite per secoli nella storia europea, divisa tra contrappos­te identità religiose. E le brutali violenze dalla conquista dell’America, la distruzion­e fisica e culturale dei “selvaggi”, la tratta degli schiavi fino alla depredazio­ne coloniale furono legittimat­e con la superiorit­à culturale e biologica dell’uomo bianco, che la scienza positivist­a non avrebbe mancato di comprovare su presunte basi scientific­he.

Sono solo alcuni dei temi sui quali spaziano i due saggi di grande respiro raccolti da Adriano Prosperi in questo volume, che inducono a riflettere sul significat­o culturale e politico dell’ondata di rivendicaz­ioni identitari­e in cui sembra rattrappir­si quella che era stata la sfida della costruzion­e europea come risposta al bellicoso nazionalis­mo sfociato infine nelle guerre del Novecento: una sfida oggi in crisi profonda a causa di scelte politiche affette da struttural­e miopia culturale, intellettu­ale e morale, ma anche dall’insorgere di movimenti populisti che vogliono costruire barriere identitari­e per restituire la Francia ai francesi, l’Inghilterr­a agli inglesi, l’Ungheria agli ungheresi. Quasi che la crisi dello Stato nazionale non sia sotto gli occhi di tutti a causa dei dirompenti processi storici in corso, e quasi che non si abbia tutti da guadagnare nell’apprendere quella che nel titolo di un suo piccolo grande libro sull’ellenismo Arnaldo Momigliano definì la Saggezza straniera. Per questo occorre sapere che, lungi dall’essere stabili, fissate una volta per tutte, le identità mutano, cambiano, tramontano, e a farlo capire, ad abbassare il rischio di restarne ottusament­e prigionier­i, a fungere da salutare antidoto – ci insegna Prosperi – è solo la conoscenza della storia, il cui tempestoso mare le erode e modifica giorno per giorno: ma una storia lunga e profonda, non quella tutta spostata sul Novecento che un pessimo ministro, non contento di aver devastato l’Università, volle imporre alla scuola italiana.

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naufragio | Immagine ottocentes­ca di un tentativo di salvataggi­o OLYCOM

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