Nel nome delle identità
La difesa di usi, costumi, lingua e tradizioni innesca un rifiuto di masse di emigranti che si riversano sulle nostre terre dalle perife rie del mondo, secondo cicli storici in parte già noti
Lontanissima appare oggi, con i chiari di luna che corrono, la discussione che solo pochi anni fa ferveva sulle radici storiche dell’Europa: la cultura dell’antichità classica, naturalmente, ma anche la tradizione cristiana rivendicata con forza dalla Chiesa cattolica o i valori dell’Illuminismo e la sua scoperta dei diritti umani sui quali insistevano i laici. Mettere tutti d’accordo fu impossibile e la questione si esaurì rapidamente senza approdare a nulla, com’era inevitabile e auspicabile, poiché non esiste un patrimonio storico comune tale da poter definire una volta per tutte quale sia l’identità europea, quali ne siano le componenti e le matrici in cui tutti possano riconoscersi, se non quelle insite proprio nelle sue molteplici differenze.
Fu una manifestazione significativa dell’emergere di sempre più robuste istanze identitarie, nelle quali non è difficile scorgere una conseguenza della cosiddetta globalizzazione, che sta i mponendo mutamenti così rapidi e violenti da scatenare reazioni difensive altrettanto violente contro l’intrusione del mondo esterno negli spazi consueti dell’esperienza individuale o comunitaria, dei propri usi e costumi, della propria lingua, delle proprie abitudini e tradizioni. Soprattutto perché la globalizzazione dei mercati finanziari, dei capitali alla ricerca di profitto, della produzione, del lavoro e del commercio ha contribuito a innescare giganteschi e incontrollabili flussi umani, che dalle periferie più miserabili del mondo cercano di affacciarsi a qualche speranza di futuro, a qualche condizione di vita più dignitosa, a qualche maggiore sicurezza, o magari solo di sottrarsi alle guerre e alle stragi sulle cui origini non di rado i potenti della terra hanno non poche responsabilità. E nel fare questo portano con sé lingue, religioni, culture diverse da quelle degli europei, che finiscono con il guardarli come corpi estranei, invasori, potenziali nemici, soprattutto se la loro diversità si connota in termini religiosi. « Le merci e gli oggetti si mondializzano mentre gli esseri umani si tribalizzano», osserva Prosperi, riprendendo il giudizio di Amartya Sen sulle identità che diventano « assassine » .
Quello che una volta si chiamava il terzo mondo preme alle porte del primo, le scardina, vi si infiltra da ogni parte, scatenando reazioni xenofobe, chiusure egoistiche al riparo di muri e fili spinati che poco potranno fare se non aggravare le sofferenze e le umiliazioni degli sventurati migranti. La difesa della propria presunta identità diventa così una sorta di clava per escludere quanti non ne siano partecipi, quasi che essa stessa non sia tutta quanta culturale, non nasca cioè a sua volta da una storia di incontri e scontri tra popoli ed etnie, di migrazioni, invasioni e conflitti, di scambi e contaminazioni culturali e in molti casi da quella che Eric Hobsbawm ha definito «l’invenzione della tradizione». Non merita insistere sul fatto che la Lombardia di Bossi e Salvini trae il suo nome dai longobardi, un tempo stanziati nella Germania del Nord, che poco avevano a che fara con la Padania. Basti solo ricordare la costante presenza degli ebrei da un capo all’altro del continente, sempre e ovunque perseguitati, o l’estendersi al mondo slavo di un’Europa le cui origini non sono riducibili al cosiddetto incontro romano-germanico dell’alto medioevo, o il trasformarsi del mare nostrum dei romani in un Mediterraneo cristiano a nord e musulmano a sud dopo la fulminea conquista araba, destinata a inglobare per lungo tempo la Sicilia e la Spagna.
Proprio la storia degli ebrei, delle persecuzioni di cui furono fatti oggetto fino allo sterminio pianificato dal nazismo rivela i baratri di orrore cui possono portare i fanatismi identitari della razza, delle appartenenze di sangue e di terra, delle identità collettive cresciute tra l e atrocità delle guerre, del popolo stretto attorno alle proprie bandiere per perseguire il proprio “destino” o conquistare il proprio spazio vitale. Anche il fascismo si diede da fare per costruire i suoi improbabili miti identitari dell’Italia romana, bellicosa e colonizzatrice, del suo popolo proletario di santi, poeti e navigatori alla conquista di un impero straccione che non perse occasione di dare prove di truce razzismo. Sia pure in forme diverse, nazismo e fascismo erano figli dell’immane carnaio della prima guerra mondiale, tragico esito delle tensioni accumulatesi nel sempre più esasperato ap- prodo nazionalista della costruzione degli Stati nazionali, degli irredentismi, della competizione coloniale, fino alla sacralizzazione della guerra e dei caduti, del milite ignoto e dell’altare della patria. Crociate, guerre sante, conversioni forzate, espulsioni, del resto, si sono susseguite per secoli nella storia europea, divisa tra contrapposte identità religiose. E le brutali violenze dalla conquista dell’America, la distruzione fisica e culturale dei “selvaggi”, la tratta degli schiavi fino alla depredazione coloniale furono legittimate con la superiorità culturale e biologica dell’uomo bianco, che la scienza positivista non avrebbe mancato di comprovare su presunte basi scientifiche.
Sono solo alcuni dei temi sui quali spaziano i due saggi di grande respiro raccolti da Adriano Prosperi in questo volume, che inducono a riflettere sul significato culturale e politico dell’ondata di rivendicazioni identitarie in cui sembra rattrappirsi quella che era stata la sfida della costruzione europea come risposta al bellicoso nazionalismo sfociato infine nelle guerre del Novecento: una sfida oggi in crisi profonda a causa di scelte politiche affette da strutturale miopia culturale, intellettuale e morale, ma anche dall’insorgere di movimenti populisti che vogliono costruire barriere identitarie per restituire la Francia ai francesi, l’Inghilterra agli inglesi, l’Ungheria agli ungheresi. Quasi che la crisi dello Stato nazionale non sia sotto gli occhi di tutti a causa dei dirompenti processi storici in corso, e quasi che non si abbia tutti da guadagnare nell’apprendere quella che nel titolo di un suo piccolo grande libro sull’ellenismo Arnaldo Momigliano definì la Saggezza straniera. Per questo occorre sapere che, lungi dall’essere stabili, fissate una volta per tutte, le identità mutano, cambiano, tramontano, e a farlo capire, ad abbassare il rischio di restarne ottusamente prigionieri, a fungere da salutare antidoto – ci insegna Prosperi – è solo la conoscenza della storia, il cui tempestoso mare le erode e modifica giorno per giorno: ma una storia lunga e profonda, non quella tutta spostata sul Novecento che un pessimo ministro, non contento di aver devastato l’Università, volle imporre alla scuola italiana.