Guercino piacentino
L’immediata seduzione suscitata dai dipinti di Guercino rischia di ostacolare l’intima comprensione di questo grande pittore. Ci aiuta ad entrarvi nel profondo la bella e articolata mostra allestita in Palazzo Farnese a Piacenza, in concomitanza con la conclusione del restauro degli affreschi della cupola del Duomo piacentino, realizzati tra il 1626 e il 1627. Giovanni Battista Barbieri detto il Guercino ( 1591- 1666), artista complesso oltre la subitanea gradevolezza, eccellente in quadri sacri e profani, compie un iter tanto sfaccettato da meritare una suddivisione per maniere e periodi e nel contempo da respingere gli schemi classificatori di naturalismo e classicismo che solitamente si abbattono sull’arte italiana della prima metà del XVII secolo. Se il visitatore o il cultore della materia avessero poi la pazienza ( e le armi) di leggere il bel saggio di Daniele Benati che introduce il catalogo, riuscirebbero a cogliere meglio la varietà e il fluire di uno stile che dapprima matura alla luce di maestri ferraresi come lo Scarsellino e il Bonone e della lezione fondamentale di Ludovico Carracci, di cui Guercino manifesta di essere il seguace più acuto, poi di quella del Caravaggio, che gli risulta congeniale per brevissimo tempo, e più tardi anche di Guido Reni, in un evolversi sempre dominato dal nume di Correggio, cui è devoto per lo splendore scenografico e cromatico, riprodotto anche a Piacenza. Il tutto però viene ricapitolato in un fare assolutamente autonomo, come si palesa nel Cristo che appare alla madre, quadro che rifiuta procedimenti di indagine critica svolti per affinità e dipendenze, sintesi unica qual è, nei suoi anni 1628- 30, di nobile idealizzazione, sentimentale trasporto, controllata eloquenza teatrale, divino- umano fervore.
Questo insieme di caratteri l’aveva in fondo intuito, nell’ultimo decennio del Settecento, l’abate Lanzi, evidenziando nel meraviglioso Cristo risorto «il gran contrasto di luce e di ombra, l’una e l’altra arditamente gagliarde, ma miste a gran dolcezza per l’unione, e a grande artifizio pel rilievo». All’elemento teatral-sentimentale Guercino ricorre sempre. Lo profonde dall’inizio al termine della sua vita d’artista. Il sentimento è estatico nel giovanile San Carlo in preghiera; oppure interrogativo e turbato nei due giovani pastori che all’improvviso si trovano al cospetto di un teschio, fonte di meditazione sulla morte, nel capolavoro della Galleria Barberini intitolato Et in Arcadia ego, oggetto di opposte interpretazioni; oppure intensamente colloquiale nel San Matteo e l’angelo, che poco ha di caravaggesco; fervido nella Vergine che appare a San Lorenzo; equivoco nella Susanna e i vecchioni; tenero nell’Immac olata concezione con Dio padre.
Siamo distanti poco meno di trent’anni dagli spettacolari affreschi della cupola del Duomo di Piacenza, dove Guercino subentrò al Morazzone. La visione da vicino di questo maestoso affresco, con Profeti, Sibille ed Episodi della vita di Cristo, è consentita a chi si inerpica tramite un cammino misto di scalini di pietra medievali, che sono del campanile, e moderne passerelle utilizzate per il restauro. Cammino sconsigliato a chi soffre di vertigini o di podagra, cui conviene ammirare quei rutilanti affreschi da dove di norma si fa.