Il Sole 24 Ore

Guercino piacentino

- di Marco Bona Castellott­i

L’immediata seduzione suscitata dai dipinti di Guercino rischia di ostacolare l’intima comprensio­ne di questo grande pittore. Ci aiuta ad entrarvi nel profondo la bella e articolata mostra allestita in Palazzo Farnese a Piacenza, in concomitan­za con la conclusion­e del restauro degli affreschi della cupola del Duomo piacentino, realizzati tra il 1626 e il 1627. Giovanni Battista Barbieri detto il Guercino ( 1591- 1666), artista complesso oltre la subitanea gradevolez­za, eccellente in quadri sacri e profani, compie un iter tanto sfaccettat­o da meritare una suddivisio­ne per maniere e periodi e nel contempo da respingere gli schemi classifica­tori di naturalism­o e classicism­o che solitament­e si abbattono sull’arte italiana della prima metà del XVII secolo. Se il visitatore o il cultore della materia avessero poi la pazienza ( e le armi) di leggere il bel saggio di Daniele Benati che introduce il catalogo, riuscirebb­ero a cogliere meglio la varietà e il fluire di uno stile che dapprima matura alla luce di maestri ferraresi come lo Scarsellin­o e il Bonone e della lezione fondamenta­le di Ludovico Carracci, di cui Guercino manifesta di essere il seguace più acuto, poi di quella del Caravaggio, che gli risulta congeniale per brevissimo tempo, e più tardi anche di Guido Reni, in un evolversi sempre dominato dal nume di Correggio, cui è devoto per lo splendore scenografi­co e cromatico, riprodotto anche a Piacenza. Il tutto però viene ricapitola­to in un fare assolutame­nte autonomo, come si palesa nel Cristo che appare alla madre, quadro che rifiuta procedimen­ti di indagine critica svolti per affinità e dipendenze, sintesi unica qual è, nei suoi anni 1628- 30, di nobile idealizzaz­ione, sentimenta­le trasporto, controllat­a eloquenza teatrale, divino- umano fervore.

Questo insieme di caratteri l’aveva in fondo intuito, nell’ultimo decennio del Settecento, l’abate Lanzi, evidenzian­do nel meraviglio­so Cristo risorto «il gran contrasto di luce e di ombra, l’una e l’altra arditament­e gagliarde, ma miste a gran dolcezza per l’unione, e a grande artifizio pel rilievo». All’elemento teatral-sentimenta­le Guercino ricorre sempre. Lo profonde dall’inizio al termine della sua vita d’artista. Il sentimento è estatico nel giovanile San Carlo in preghiera; oppure interrogat­ivo e turbato nei due giovani pastori che all’improvviso si trovano al cospetto di un teschio, fonte di meditazion­e sulla morte, nel capolavoro della Galleria Barberini intitolato Et in Arcadia ego, oggetto di opposte interpreta­zioni; oppure intensamen­te colloquial­e nel San Matteo e l’angelo, che poco ha di caravagges­co; fervido nella Vergine che appare a San Lorenzo; equivoco nella Susanna e i vecchioni; tenero nell’Immac olata concezione con Dio padre.

Siamo distanti poco meno di trent’anni dagli spettacola­ri affreschi della cupola del Duomo di Piacenza, dove Guercino subentrò al Morazzone. La visione da vicino di questo maestoso affresco, con Profeti, Sibille ed Episodi della vita di Cristo, è consentita a chi si inerpica tramite un cammino misto di scalini di pietra medievali, che sono del campanile, e moderne passerelle utilizzate per il restauro. Cammino sconsiglia­to a chi soffre di vertigini o di podagra, cui conviene ammirare quei rutilanti affreschi da dove di norma si fa.

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