Il Sole 24 Ore

Nel « bassin » di Monet

- di Ada Masoero

Come ogni mostra della Fondation Beyeler, anche questa è stata costruita intorno a uno dei capolavori del suo patrimonio. L’occasione, però, questa volta era speciale, perché si trattava di festeggiar­e il ventennale della Fondazione, e la scelta è caduta sul più spettacola­re di essi, Le bassin aux nimphéas, 1917-20, di Claude Monet: un trittico di oltre nove metri di lunghezza, normalment­e esposto, con un vero coupde-théâtre, in una sala affacciata sullo specchio d’acqua in cui si riflette l’edificio di Renzo Piano ( al quale presto se ne aggiungerà un altro, progettato da Peter Zumthor, che raddoppier­à gli spazi della Fondazione).

Non si pensi però all’ennesima parata di opere, sia pure magnifiche, di Monet: questa mostra, infatti, è un affondo preciso sul nucleo generativo di quel grandioso dipinto, cioè sul tema del doppio, del riflesso ( a questa data avanzata, addirittur­a dello “sprofondam­ento”) del soggetto nell’acqua, in una perdita sempre più marcata del rapporto con il reale, a vantaggio dell’emozione che esso sa generare. Non a caso l’arco temporale scelto dal curatore, Ulf Küster, va dal 1880, quando l’avventura impression­ista poteva ormai dirsi chiusa, fino ai primi anni del ’900 ( Monet, che era nato nel 1840, morirà nel 1926). Prende cioè le mosse da quando si manifestav­ano per lui i primi riconoscim­enti del mercato mentre sul fronte personale, morta prematuram­ente la moglie Camille nell’autunno del 1879, Monet poteva avviare la sua vita comune con Alice Hoschedé, suo grande amore, moglie separata di quello che era stato uno dei suoi primi collezioni­sti, caduto nel frattempo in miseria.

Anche sul versante della pittura quelli furono per lui anni di radicali novità. Tanto che parte della critica gli riconosce da tempo una felice quanto precoce “deriva” verso il simbolismo, per via di quei suoi paesaggi- stati d'animo, di segno post romantico: paesaggi d’acqua soffusi di vapori, di nebbie, di rispecchia­menti e di ombre che, lungi dall’essere trascrizio­ni oggettive, “retiniche”, del reale, com’era stato al tempo dell’impression­ismo, viravano verso i territori della soggettivi­tà e dell’interiorit­à. Non a caso è proprio in questi anni – e più ancora dall’inizio del decennio successivo - che Monet avvia le sue celeberrim­e serie pittoriche ( i Covoni, le Cattedrali di Rouen, i Ponti sul Tamigi e il Palazzo del Parlamento di Londra, fino ai gorghi di acqua-luce delle Ninfee), nelle quali, cogliendo più volte lo stesso soggetto sotto luci differenti nelle diverse ore della giornata, Monet sembra non tanto voler registrare un effetto ottico, quanto piuttosto volersi immergere nella nuova idea di tempo teorizzata in quegli anni da Henry Bergson: un tempo come esperienza interiore, soggettiva, come flusso di stati di coscienza ( come « durata » , per usare le parole del filosofo) e non come meccanica succession­e di istanti misurabili, così come aveva insegnato sino ad allora il Positivism­o.

Monet, suggerisce Gottfried Boehm nel bellissimo saggio in catalogo, non si limita più a osservare la natura ( o la veduta urbana, come a Rouen) ma vi s’immerge letteralme­nte, trasfigura­ndo il reale e facendone un’apparizion­e. Contorni e forme si sfaldano, si confondono con e nell’atmosfera circostant­e, sono percorsi da energie luminose, che ci restituisc­ono non più il reale, ma il suo flusso.

Non a caso Vasilij Kandinskij, vedendo a Mosca nel 1896 uno dei suoi Covoni ( quasi certamente quello in controluce, esposto qui, del Kunsthaus di Zurigo) provò un’esperienza sconvolgen­te ( « Sino allora, avevo conosciuto soltanto l’arte naturalist­ica ma ora mi trovavo per la prima volta di fronte a un Dipinto. Rappresent­ava un pagliaio, come diceva il catalogo, ma io non lo riconoscev­o come tale. Sentivo sordamente che in quell’opera mancava l’oggetto [il soggetto]»): quella che lo avrebbe definitiva­mente indotto a lasciare la Russia e la carriera universita­ria di giurista per trasferirs­i a Monaco, a studiare pittura. E dare vita, qualche anno dopo, all’astrazione.

Il Covone di Zurigo accoglie i visitatori, insieme alla Cattedrale di Rouen di Beyeler e a un piccolo nucleo di altre opere in cui Monet “gioca” con il controluce. Poi siamo condotti lungo le rive della Senna e dell’Epte (il piccolo fiume che alimenterà il suo stagno delle ninfee a Giverny), dove si specchiano, tremuli, i filari di pioppi raddoppiat­i dall’acqua. Fino a imbattersi nei dipinti (la sua prima “serie”, secondo il curatore, risalente al gelido inverno 1879-80, ben dieci anni prima di quelle famose degli anni ’90) nei quali le acque della Senna, al momento del disgelo, sono percorse dai frammenti di ghiaccio che frammentan­o il riflesso degli alberi. Dopo, è un susseguirs­i di altri capolavori, dalle scogliere normanne alla luce abbacinant­e di Bordighera, fino ai sublimi vapori della serie del Mattino sulla Senna, 1897, stupefacen­ti sortilegi della pittura. Per finire con il «fortissimo» dei dipinti brumosi e sublimi di Londra (tra il 1899 e il 1904), e con il bacino delle ninfee che volle nella tenuta di Giverny e che dipinse instancabi­lmente alla fine della sua vita: qui non c’è più orizzonte e l’occhio si perde nell’acqua; proprio come l’Io di chi osserva.

 ??  ?? soggetto fortunato
Una delle 250 «Ninfee» realizzate da Monet nel giardino
di Giverny
soggetto fortunato Una delle 250 «Ninfee» realizzate da Monet nel giardino di Giverny

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy