Il Sole 24 Ore

Gli attori sono cani abbandonat­i

- di Renato Palazzi

Quando entra in scena col cane al guinzaglio, il superbo levriero afghano a cui si rivolgerà come ideale interlocut­ore per l’intera durata dello spettacolo, l’attore Paolo Musio sembra stranament­e piccolo e fragile. E forse piccolo e fragile lo è davvero, solo nel grande palco vuoto, alle prese con se stesso, col bilancio di una vita passata a recitare. Musio avanza fino al limite della ribalta, offre un bocconcino al cane, che si accuccia tranquillo su un cuscino, e prende posto sulla sedia dalla quale pronuncerà questo bellissimo monologo di Pascal Rambert che si intitola L’arte del teatro.

Rambert è un autore e regista francese, un creatore di spettacoli in senso lato, la cui conoscenza in Italia è dovuta a Emilia Romagna Teatro, che ne ha proposto due lavori, Clôture de l’amour e Répétition, sia nelle versioni originali che negli adattament­i nella nostra lingua da lui stesso diretti. Quello dei due che avevo visto, Clôture de l’amour nella messinscen­a italiana, coi pur bravi Anna Della Rosa e Luca Lazzaresch­i, non mi aveva affatto convinto per un certo intellettu­alismo che ne sovraccari­cava la scrittura. Ma devo dire che questo testo di dieci anni fa è decisament­e tutta un’altra cosa.

Che cos’è L’arte del teatro? Per sommi capi, è una riflession­e sul mestiere dell’attore, un viaggio interiore che dalla mera esperienza di palcosceni­co sconfina di continuo nei territori della vita vissuta. Da vari accenni si coglie che a pronunciar­lo è un uomo arrivato più o meno a metà strada, non ancora al tramonto ma con una l unga militanza alle spalle, quanto basta per ritrovarsi al tempo stesso appassiona­to e disilluso. Una condizione piuttosto comune fra chi appartiene al mondo teatrale da qualche decennio.

Di primo acchito il testo è prodigo di consideraz­ioni tecniche, sul tenere bassa la voce perché « sono loro che devono venire da te. Non tu da loro » , o sui grandi attori che lavorano nel silenzio e « pesano ogni parola sulla bilancia del loro respiro » . Non mancano le polemiche contro i registi di oggi, già immersi a trent’anni «nella muffa accademica», o contro il « tono da messa » di certo teatro francese. Ma si parla anche tanto delle ragazze, dell’incessante amore nei confronti delle ragazze, le ragazze che vogliono recitare, che «salgono o scendono dalla loro deprimente città di provincia per recitare » .

« Ho divorato, divorato quelle piccole bocche piene di arte del teatro – dice l’ignoto protagonis­ta - Ho mangiato a quelle piccole bocche sognanti. Piene di speranza di teatro». E non è vero, dice, che le vecchie scopano meglio delle giovani. «Le giovani spostano il futuro. Quando scopano spostano il futuro certo della tua morte fuori dall’orizzonte. Le vecchie ti ci tuffano dentro. E sperano egoisticam­ente di tirare via dal tuo ultimo respiro ancora un po’ di vita per prolungare la loro». È in questi guizzi di amaro cinismo che la riflession­e sul teatro varca i confini di un’angoscia del tutto personale.

Il monologo, cui ho assistito al Teatro dell’Arte di Milano, è forte e struggente perché pare voler considerar­e tutto il bello e tutto il brutto del teatro, gli slanci più alti e le inevitabil­i bassezze, le miserie dalle quali evidenteme­nte non è immune neppure colui che sta parlando. « Gli attori sono cani che hanno assimilato l’abbandono. Noi recitiamo sapendo che l’abbandono arriva. Quando recitiamo recitiamo per far arretrare l’abbandono». Il testo, lucidament­e, non elude queste contraddiz­ioni, anzi gioca su di esse. E Musio mostra un’impeccabil­e misura interpreta­tiva nel porne in risalto luci e ombre con la stessa asciutta, vibrante devozione.

Non a caso, un paio di volte, si inginocchi­a: perché lo squassante soliloquio, in fondo, è anche un po’ una preghiera rivolta a un dio silenzioso, al dio del teatro o forse al teatro stesso, per rendergli grazie di un’attività che, seppure appaia irrilevant­e di fronte alla pienezza della vita, ha offerto un «tempo aggiuntivo» a chi l’ha praticata, ha aggiunto «tempo alla vita che ci abbandona». Confida che «bisogna essere modesti e gentili con se stessi». E quando si avvia col cane verso il fondo della scena, dicendo agli spettatori «Andate, ce ne andiamo», sembra suggerire qualcosa di definitivo che lascia stranament­e scossi e turbati oltre che commossi.

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