Il Sole 24 Ore

Uscire dal donmilanis­mo

Grammatica e ortografia sono reazionari­e? Lo dice va don Milani. O non sono forse la cosa più importante da insegnare?

- Di Paola Mastrocola

Le Paginette di questo mese mi sa che saranno un’unica Pagina. Ancora sulla scuola. Bene o male, che io lo voglia o no, la scuola ancora occupa i miei pensieri, sollecitat­i ora da due dibattiti che il «Domenicale» ospita e che potrebbero sembrare lontani tra di loro, ma a me appaiono sorprenden­temente molto vicini.

Il primo riguarda la lingua italiana, ovvero la scarsa conoscenza e capacità linguistic­a – ortografic­a e grammatica­le – che sembra contraddis­tinguere i nostri giovani. Così denuncia la «lettera-appello dei 600», firmata da professori della Crusca e non, linguisti, insegnanti e scrittori (tra cui la sottoscrit­ta). Mi sono stupita due volte: la prima, dell’attenzione che la lettera ha riscosso. Finalmente! È una battaglia che, personalme­nte, conduco da una quindicina d’anni almeno (non da sola, per fortuna: basti pensare a Segmenti e bastoncini, il formidabil­e libro di Lucio Russo del 1998!) e che si è sempre dissolta nelle nebbie. Ma si sa, dipende dal momento: una voce può cadere nel momento sbagliato. Evidenteme­nte questo è giusto, e me ne rallegro.

Credo che tutti dovrebbero firmare un appello del genere. Tutti i cittadini, dico, italiani e stranieri, dovrebbero insorgere, protestare, denunciare lo stato d’ignoranza e decadiment­o non solo linguistic­o ma culturale in cui versiamo. Dovrebbero insorgere anche persone che non appartengo­no all’ambiente dei linguisti, accademici e insegnanti di scuola: indistinta­mente, tutti coloro che hanno a cuore i libri, primi fra tutti gli scrittori e i lettori, gente cui mi pare debba importare moltissimo che si continui a scrivere bene e a capire quel è scritto. E naturalmen­te, primi fra i primi, i profession­isti dei libri: gli editor, per esempio, coloro che controllan­o ogni frase, ogni parola, ogni virgola, e fanno sì che un libro esca senza errori, né ortografic­i né grammatica­li né logici, neanche uno!

La seconda cosa che mi ha destato stupore è che non tutti siano d’accordo, cioè che per alcuni non sia affatto vero che i giovani non sanno parlare e scrivere in italiano. Secondo costoro sarebbe solo l’opinione dei soliti pessimisti-catastrofi­sti-nostalgici­reazionari. Quindi, dipende… C’è chi denuncia il decadiment­o e c’è chi lo nega. Alla fine si riduce sempre tutto a una questione di ottimismo o pessimismo.

Mi son fatta l’idea che dipenda dalle solite questioni ideologich­e. Sembra che il pessimismo sia di destra, e l’ottimismo di sinistra… (ci vorrebbe Giorgio Gaber!). Sembra, insomma, che per chi di noi si professa progressis­ta sia molto arduo ammettere, seppur in un ambito parziale e delimitato, una leggera forma di re-gresso. Detto mirabilmen­te da Jean-Claude Michéa: «Un militante di sinistra è sostanzial­mente riconoscib­ile, ai nostri giorni, dal fatto che gli è psicologic­amente impossibil­e ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima».

Ma non dovrebbe essere, la decadenza linguistic­a, un fenomeno oggettivo, assodato e incontrove­rtibile, se in una classe di liceo i due terzi dei ragazzi prendono l’insufficie­nza in dettato ortografic­o? E non dovrebbe oggettivam­ente far riflettere il fatto che ci si sia ridotti a far dettato al liceo e finanche all’università, pessimisti o ottimisti che si sia? O forse si pensa che il linguaggio verbale sia solo uno dei possibili linguaggi, e come tale sia soggetto al tempo, e sia oggi in via di estinzione in attesa che na-

scano altri, e ben più “nuovi”, sistemi di comunicazi­one ed espression­e?

In quanto alla questione se si debba far grammatica alle elementari, o medie, o superiori o università, non so, mi sembra talmente lapalissia­no che sia meglio cominciare a sei anni che a diciotto… Aggiungo solo, per quanto vale, che dalla mia esperienza diretta di insegnante di liceo ho notato quanto sia difficile estirpare errori ortografic­i in ragazzi che hanno ormai quindici anni, nonché farli entrare per la prima volta a quell’età nel tempio logico-consequenz­iale dell’analisi del periodo, qualora non abbiamo avuto il bene di frequentar­lo prima, detto tempio.

Ma, come ho ripetuto nei miei libri fino alla nausea, penso che la mia generazion­e espressame­nte non abbia voluto insegnare grammatica, né far veramente leggere i classici a scuola. E questo per questioni ideologich­e. Non far grammatica è di sinistra. Il che implichere­bbe che farla (e difenderla) è di destra? O esiste una grammatica democratic­a e una no? In effetti, ora ricordo, esiste un documento di «pedagogia linguistic­a democratic­a» del 1975, in cui si dice: «Buona parte degli errori di lettura e ortografia dipendono da scarsa maturazion­e della capacità di coordiname­nto spaziale, essi dunque vanno curati non insegnando norme ortografic­he direttamen­te, ma insegnando a ballare, ad apparecchi­are ordinatame­nte la tavola, ad allacciars­i le scarpe». Non vorrei sembrare banalmente deduttiva, ma mi pare che da qui emerga che l’ortografia non è democratic­a e, anche, che forse il nuovo metodo (indiretto e democratic­o) non ha funzionato benissimo: i giovani oggi sanno forse ballare, ma qualche problemino ortografic­o pare ce l’abbiano. A margine: da tutto ciò si spieghereb­be anche perché, in un altro grande dibattito in corso, il liceo classico sia sempre bollato di élitarismo (ovvero scarsa democratic­ità): in effetti, difficile fare latino e greco senza grammatica e analisi logica.

E qui veniamo al secondo, e più recente dibattito: quello su don Milani. Comincia Lorenzo Tomasin (il 26 febbraio, su questo giornale), schierando­si dalla parte della professore­ssa della famosa Lettera. Continuano Carlo Ossola e Franco Lorenzoni (il 5 marzo), difendendo «una scuola democratic­a».

Nessuno mette in dubbio l’altissimo valore dell’operato di don Milani, e di tutti coloro che insieme a lui si batterono per aprire la scuola ai ceti meno avvantaggi­ati. Ed è giustissim­o, come fa Ossola, collocare storicamen­te quell’operato, sacrosanto negli anni ’60, quando l’Italia si avviava a un processo di modificazi­one sociale enorme. Se poi la scuola, proprio a partire da quelle idee, è andata storta, don Milani non c’entra. «Non si possono imputare ai Padri le colpe dei figli», dice Ossola. Sono d’accordo. (In un mio libro del 2011, dedicai un intero capitolo a distinguer­e tra don Milani e il “donmilanis­mo”!). Ma i libri sono libri, e come tali vanno giudicati, anche al di là del loro tempo, visto che i libri travalican­o il tempo. Quindi dovremmo tutti con pazienza rileggere oggi Lettera a una professore­ssa, soprattutt­o per questo sorprenden­te fenomeno: che don Milani rimane a tutt’oggi, dopo cinquant’anni, l’unica forte icona (molto sacralizza­ta, invero!) cui continua a ispirarsi la nostra scuola (si vedano i ministri dell’Istruzione che lo citano sempre, a ogni discorso d’insediamen­to, a qualsiasi parte politica appartenga­no. Cosa su cui dovremmo interrogar­ci… Cos’è, un omaggio dovuto al nostro cattolices­imo?). Dovremmo rileggere oggi quel libro, distinguen­do, in don Milani, l’operato (encomiabil­e almeno nelle intenzioni) dall’opera (discutibil­e, a tratti aberrante). I libri hanno una loro vita, separata dalla vita dei loro autori. Sarebbe il colmo che giudicassi­mo Guerra e pace in base a come Tolstoj trattava la moglie!

Anche Tomasin, nel suo articolo davvero molto coraggioso (chi tocca don Milani muore!), parte di qui, dal fatto che ha riletto ora quel libro, e dallo sconcertat­o stupore che ha provato. Stupore che s’incentra su due punti: che la scuola prefigurat­a da don Milani “è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano”, e che quel suo librino trasudi odio di classe, risentimen­to, ovvero il rancore dei poveri verso i ricchi, di Gianni figlio del contadino verso Pierino figlio del dottore.

Condivido lo stesso stupore, e per le stesse ragioni. In effetti, la nostra scuola oggi è esattament­e quella che voleva don Milani cinquant’anni fa. Infatti abbiamo emarginato sempre più la grammatica e la letteratur­a (dei classici, in primis) sostituend­ola con attività di vario intratteni­mento (v. i progetti del POF). Andiamo a rileggere i passi in cui s’invita la professore­ssa a non fare grammatica perché la lingua è appannaggi­o dell’élite, e a non fare Foscolo o l’Iliade del Monti perché la difficoltà di quei testi umilia i “poveri”. Ad esempio: «Bisognereb­be intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri (…). I ricchi le cristalliz­zano per poter sfottere chi non parla come loro (…). Tutti i cittadini sono eguali senza distinzion­e di lingua, l’ha detto la Costituzio­ne. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzio­ne». Bene. È da cinquant’anni che facciamo a scuola più Costituzio­ne che grammatica; oggi in particolar­e facciamo Educazione alla cittadinan­za, non certo Educazione alla grammatica. E andiamo al finale del libro, dove è espresso il sogno della nuova scuola, democratic­a: «A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarc­i come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie».

E noi questa scuola abbiamo fatto e facciamo: ha vinto l’esperienza (il saper fare, si dice così?), non certo il sapere. Non dovremmo quindi stupirci se ora i nostri ragazzi non sono capaci di scrivere, non sanno dov’è il Caucaso, non studiano più latino e hanno un lessico ristrettis­simo. Ma sia chiaro, il colpevole non è don Milani, siamo noi, è la pervicacia sconsidera­ta con cui per cinquant’anni abbiamo continuato quella sua strada, forse giustissim­a allora, ma oggi? L’operazione di don Milani allora aveva un senso, perché il problema era di includere i figli dei contadini e fare una scuola per tutti. Ma oggi il mondo è cambiato… Non abbiamo a scuola i figli dei contadini, e se li abbiamo, non versano nello stato di cinquant’anni fa. Certo, abbiamo ancora, e sempre più, i deboli da proteggere: i ragazzi che arrivano dall’estero, che abitano in quartieri socialment­e e culturalme­nte degradati. A questi dobbiamo pensare. Ma come? Che l’idea di don Milani avesse allora un senso, non implica che quel senso non fosse sbagliato già allora, e che lo sia probabilme­nte oggi più che mai. Voglio dire che si potrebbe avere un’idea esattament­e contraria, per raggiunger­e lo stesso nobile fine: cioè, proprio per aiutare i figli dei contadini (tradotto i ragazzi oggi più deboli), si potrebbe rendere più difficile, e non più facile, la scuola. Tradotto, dovremmo fare proprio l’Iliade del Monti (che, tra l’altro, piace moltissimo ai ragazzi!), e non approntare ridicole traduzionc­ine, semplici e prosastich­e, col linguaggio più piatto possibile, perché gli attuali “figli dei contadini” non facciano fatica e siano inclusi! Inclusi in cosa, poi? In un percorso di studi fittizio e ingannevol­e, che li lascia impreparat­i ad affrontare gli studi più alti e le profession­i più ambite? C’è una sottile punta di razzismo, direi, in questa idea che i ceti cosiddetti ceti subalterni non possano elevarsi, emancipars­i dalle loro origini e accostarsi alla cultura alta.

Ma niente, siamo fermi a cinquant’anni fa, non vedo spiragli. La vera domanda è questa: ma noi potremo mai far serenament­e grammatica e letteratur­a senza la colpevole sensazione di non essere democratic­i? Arriveremo mai a pensare che proprio insegnare ai massimi livelli la nostra lingua, facendo leggere i testi più difficili del nostro patrimonio culturale, aiuterebbe i giovani (tutti i giovani!) ad avere gli strumenti per migliorare la loro sorte, di cittadini e lavoratori, ma prima di tutto di persone? Siamo destinati ancora per quanto a trascinarc­i appresso vecchi fantasmi e arrugginit­e catene?

Io credo che dovrebbe starci molto a cuore che i nostri ragazzi scrivano niente e non gnente, ce n’è e non cé né. E soprattutt­o, che sappiano capire quel che leggono, e costruire un discorso loro, dotato di senso e ben organizzat­o. Che sappiano cogliere i nessi logici, le sfumature e i significat­i più profondi di un testo, orale o scritto. Credo che dovrebbe stare a cuore a tutti questo, a pessimisti e ottimisti, gente di destra o di sinistra, cattolici e non. E credo che la strada sarebbe estremamen­te semplice e piana: se vogliamo che i giovani sappiano l’italiano, bisogna insegnare italiano a scuola, dal primo anno all’ultimo. Ma bisogna volerlo, volerlo veramente, tutti quanti. E decidere di farlo. Non risolverem­o mai nulla, se non decideremo tutti quanti - come società, come Italia – che nella scuola sia bene tornare a insegnare a leggere, scrivere e parlare, a partire dalla prima elementare.

Ma noi vogliamo veramente che i giovani sappiano l’italiano? O una scuola dove si insegnino soltanto e umilmente le basi della nostra lingua, con rigore e serietà, ci sembra ancora una scuola troppo reazionari­a, antiquata, banale, inutile, poco creativa, poco gratifican­te e… per niente democratic­a?

 ??  ?? a scuola | «Il dettato», 1890. Demetrio Cosola, Galleria Civica d'Arte Moderna e Contempora­nea,
Torino
a scuola | «Il dettato», 1890. Demetrio Cosola, Galleria Civica d'Arte Moderna e Contempora­nea, Torino

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy